La fotografia del paese è impietosa e anche un negazionista come Tremonti ha dovuto ammetterlo: scivolando ancor più verso il basso, con nuovi esclusi e vecchi mandarini, ogni tentativo di ripresa sarà ancora più difficile. A forza di tentare rincorse potremmo ritrovarci senza fiato.
A due anni dall’esplosione della crisi, il sistema Italia rischia di frantumarsi, con un governo non in grado per i numeri ormai ridotti di sostenere riforme urgenti e impegnative.
Ha fatto bene ieri Pierluigi Bersani a scrivere che il paese «non può accettare di essere narcotizzato dal chiacchiericcio politicista», ma ha necessità di «cambiare l’agenda» guardando oltre Berlusconi. E cosa c’è “oltre Berlusconi”, in questa fase storica, con i problemi che ci ritroviamo, con i giovani disoccupati che aumentano di mese in mese, aziende in forte crisi, bilanci familiari in rosso, un divario fra ricchi e poveri mai conosciuto nell’età contemporanea, un assetto istituzionale fragile e ridondante che genera una sfiducia crescente nelle capacità del sistema democratico di far quadrare i conti nel rapporto fra persona e comunità? Il Pd, dopo la battaglia parlamentare e il successo di aver contribuito a ridurre gli spazi alla più imponente maggioranza nella storia repubblicana, ha assimilato l’idea che oltre Berlusconi vi deve essere una fase costituente. Il messaggio di Bersani dalle colonne de Il Messaggero è chiaro e contiene un’agenda per consentire al paese di ritrovare se stesso, al di là delle formule e delle naturali aspirazioni. D’altronde, possiamo continuare a vivere così, e per quanto tempo ancora? La risposta è nella disponibilità di progressisti e moderati. È a loro che questa stagione chiede di raddrizzare regole e dotarsi di nuovi strumenti per evitare che dal tetto continui a piovere ad ogni temporale. Stagione di riforme e di un nuovo patto per la crescita nell’età della globalizzazione. Non è il titolo di un pallosissimo convegno, ma il tema di fondo per aiutare il paese a guardarsi negli occhi. La sfida lanciata da Marchionne resterà anche dopo il referendum a Mirafiori.
Abbiamo cominciato il 2011 e senza troppi sforzi ci siamo accorti che il mondo è cambiato. Ci siamo accorti, ad esempio, che le nazioni contano sempre meno; che la globalizzazione avanza inesorabilmente; che le culture politiche fanno fatica a leggere la contemporaneità; che una gran parte dei valori tradizionali sono tramontati; che le Chiese, anche universali, fanno fatica ad uscire dai recinti regionali; che i processi industriali propongono sfide e non provocazioni; che l’Europa non sembra farcela. Siamo entrati davvero in un mondo nuovo.
Primo pericolo: un’ulteriore marginalizzazione del grande contenitore europeo, luogo di tutela di quei diritti universali che potrebbero rivelarsi utili per dare governo alla globalizzazione.
Secondo pericolo: l’acuirsi di un senso generale di paura che potrebbe suggerire chiusure e nuovi egoismi. È vero che l’alternativa dovrebbe essere fra liberal di sinistra e liberal di destra. Purtroppo, una Terza via già esiste in tanti angoli di Europa e si chiama populismo. Ed esiste anche da noi, in Italia, nel paese dove le culture politiche democratiche hanno spesso ricercato – e anche garantito – un’idea di bene comune, ma sono state travolte e hanno lasciato il passo al delirio plebiscitario.
Come uscire dal tunnel e servire il paese senza distrarsi attorno ai propri interessi, abbandonando le miserie di dibattiti autoreferenziali? Il Pd non si mostra fermo. Durante la crisi parlamentare Dario Franceschini lanciò la proposta di un’alleanza costituzionale; ieri Bersani ha declinato l’agenda per una riforma repubblicana. Nessuno può farcela da solo e il paese merita di conoscere le risposte di quanti hanno a cuore il suo futuro.
da Europa Quotidiano 08.01.11
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Se Bersani “vede” le urne, di Mario Lavia
Una proposta per avvicinare le opposizioni per il dopo-Berlusconi: il leader dem sta entrando nella prospettiva elettorale?
Piuttosto che un lento ma inesorabile logoramento meglio il voto. In qualche angolo del suo cervello, Bersani comincia a pensarla così. Ormai rassegnato ad un modus vivendi nel suo partito contrassegnato in permanenza da un frastuono di cui ormai è persino difficile captare i singoli rumori, il segretario del Pd può essere tentato dall’auspicare un’eventualità che da questo punto di vista funziona sempre: immancabilmente le urne portano con sé la pax interna.
Così alcuni spiegano il senso della lunga lettera bersaniana al Messaggero , con l’obiettivo di riprendere fra le mani il filo di un dialogo con tutte le forze di opposizione e di perorare di nuovo un’intesa comune su un’agenda per il dopo-Berlusconi: dove – va da sé – il ruolo del Terzo polo non può che essere “la” novità di questa fase. Come se, in parole povere, Bersani come minimo mettesse fortemente in conto l’eventualità del voto anticipato, magari rafforzata dalle ultime esternazioni di quel Tremonti che lui conosce troppo bene per non indovinarne i desiderata , che certamente confliggono con la permanenza di Berlusconi a palazzo Chigi.
D’altronde il Pd non ha molte chances. Anche se le urne non lo premiassero, è anche vero che con questa legge elettorale potrebbe uscirne come uno dei protagonisti: se nessuno ha la maggioranza in entrambi i rami del parlamento, ecco che l’ipotesi di un governo d’emergenza (la crisi non è finita, no?) potrebbe tornare in auge. Quel che è certo è che la stagnazione non favorisce la ripresa di appeal del partito, incoraggiando invece spinte estremiste vecchie e nuove, dalla Fiom a Vendola a fenomeni di radicalismo e qualunquismo mescolati. Il rischio c’è.
Alla fine della giornata il bilancio qual è? Incassato un sì da Di Pietro (ma non era probabilmente il più atteso) e un commento interlocutorio ma non negativo di Migliore (Sel), è arrivata anche una risposta agrodolce di Urso, un riconoscimento delle ragioni bersaniane condito però da un indigesto «non serve una piattaforma delle opposizioni». Non tantissimo ma è meglio di niente.
Sul fronte interno, il leader del Pd, che doveva impostare in prima persona la direzione del 13 che a questo punto si annuncia più importante di quanto avrebbe potuto essere alla vigilia di Natale, quando venne sconvocata, annota il consenso della sua maggioranza. Resta il fatto che una vicenda-chiave come la Fiat ha scompaginato la geografia interna e soprattutto evidenziato qualche oscillazione di giudizio, inducendo il segretario ad attestarsi su una posizione articolata (l’accordo va bene per un verso, va male per un altro) di non agevole comunicazione.
Se un uomo solitamente misurato come Cesare Damiano è arrivato a dire che «siamo alla frutta» vuol dire davvero che più che gli abituali boatos sulle scissioni quello che fa paura è il caos e la conseguente paralisi del partito.
Un’aria cattiva che alimenta il dissenso sempre più radicale di uno come Ignazio Marino, che aumenta l’insoddisfazione di D’Alema, che non fa piacere a Letta. E Veltroni? Veltroni voleva – vorrebbe – un altro Pd. Probabile che ad alcuni suoi proches sia slittata la frizione, proprio interpretando il sentire del capo, arrivando ad ipotizzare un congresso che è evidentemente fuori dalle cose possibili. La circostanza ha fatto imbestialire Walter («Non so di che si parli»), tanto più che vi ha visto qualche “manina” interessata a seminar zizzania. Un ennesimo incidente in attesa di altre – come dire – incomprensioni.
da Europa Quotidiano 08.01.11