Così il Risorgimento è uscito dai sussidiari e dai libri di testo un po’ polverosi, per tornare a parlare, attraverso le parole misurate e sensibili alla critica del nostro Presidente, alle italiane e agli italiani. 150 anni sono un’eternità e, però, per altri versi, sono un secolo e mezzo molto breve, in cui molte cose rimangono ancora da fare, nonostante due guerre, una dittatura, e due Repubbliche. Le divisioni e le dicotomie ancora ci accompagnano, come se tutto fosse irriformabile. I ritardi (e gli sprechi) sembrano una traccia che non si perde. In più, se è possibile, l’Italia si è ancora più allontanata dall’Europa, e il suo provincialismo assume, talvolta, i toni dell’autarchia, ancora più paradossale (e dolorosa) ai tempi della globalizzazione.
L’estate scorsa ho attraversato il Paese per raccontarlo per conto di questo giornale (che si chiama Unità ed è bello ricordarlo oggi), da Torino a Marsala, passando anche per la Reggio Emilia del Tricolore e dei mille colori, alle prese oggigiorno con la complessa sfida dell’integrazione e della convivenza. Raccontammo di Ippolito Nievo e dei piroscafi, dei Borboni e dei borbonici antichi e nuovi (perché ci sono anche quelli), di Teano e della memoria, di Sapri e dei tentativi andati male (e del coraggio che però ci vuole), di Calatafimi e delle sfide impossibile, le uniche a misura di italiano, e di Talamone e della bellezza della provincia pugliese. Che non c’entra con il Risorgimento, ma c’entra con tante altre cose. E lo facemmo – perché era un viaggio collettivo – scorrendo la Penisola e i primi articoli della Costituzione, che proprio oggi Napolitano ha detto essere considerata da tutti (nonostante, per la verità,non siano mancati gli attacchi) il testo che ci unisce. Che unisce le generazioni, i ceti, le opportunità, il paesaggio e l’idea di Paese.
Tra le pieghe delle incertezze e delle cose che non vanno, trovammo molte cose buone, anche troppe, perché non organizzate, non messe in rete, come si dice oggi. Perché c’è ancora il locale che non è localistico, c’è l’innovazione e la creatività, c’è chi rischia e investe, quasi scommettendo su un Paese che spesso non restituisce tutto quello
che gli si dà. C’è il nero, più o meno dappertutto, ma ci sono anche la legge e la regola. E il buonsenso, che sembra avere abbandonato per sempre la politica nazionale. C’è la misura, pure, in un Paese troppo lungo e troppo disperso, quasi smisurato, appunto.
Il tricolore di Reggio campeggia nel simbolo del Pd e ci ricorda che anche il Pd era nato per unire il Paese, la politica degli eletti, da una parte, e i loro elettori, dall’altra, per avvicinare i figli ai genitori, gli italiani di sempre e quelli appena arrivati. Per dare senso e compiutezza alle informazioni e ai dati di partenza, all’insegna di un’operazione verità (con la ‘v’ sobriamente minuscola, mi raccomando) sempre più urgente, nel Paese in cui tutto è confuso, volutamente confuso, perché nulla possa cambiare.
Un’Italia sincera, insomma, che non si prende troppo sul serio, che non fa scene e non si concede al melodramma, ma che si conosce e che interviene là dove c’è bisogno. Con riforme strutturali, di cui si parla in misura inversamente proporzionale alla loro realizzazione, con interventi decisi e seri, proprio perché hanno a che fare con la nostra storia (a cominciare dal debito pubblico, l’unica cosa che di questi tempi unisce, davvero, le generazioni). Chissà che questa non sia la storia non dico dei prossimi centocinquanta, ma dei quindici anni che ci aspettano, in cui una nuova Repubblica, fedele alle sue origini, sappia interpretare il mondo che cambia. Con le sue energie più fresche, perché il Risorgimento lo fecero i giovani.
Protestando e ribellandosi, ma anche cercando una strada per dare un senso alla vita loro e a quella della loro nazione ma anche al mondo intero. Improbabile di questi tempi? Forse, anzi, quasi sicuro, ma altrettanto necessario.
L’Unità 08.01.11