Dopo il 14 dicembre e l’incontro con Napolitano, i giovani più «sfiduciati» d’Europa preparano le nuove iniziative per bloccare la riforma dell’università. A partire dallo sciopero Fiom del 28 gennaio
Il movimento no-Gelmini ha dunque avuto un esito rassicurante. Dopo avere distinto i «violenti» protagonisti del tumulto del 14 dicembre a Roma dagli studenti «non violenti» che hanno parlamentato con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una settimana dopo, l’ordine del discorso è stato riportato allo zero. Gli studenti, cioè i ragazzi tra i 18 e i 30 anni più disoccupati d’Europa (il 28 per cento, mentre più alto è il tasso di «sfiduciati» che il lavoro nemmeno lo cercano o, più semplicemente, lavorano «in nero») hanno avuto un buon voto sui quaderni delle loro doglianze e sono andati in vacanza soddisfatti. L’«unico interlocutore» ha ribadito che sul loro futuro si gioca il destino della democrazia.
All’apice della commozione nazionale, nessuno però ha ricordato la «profezia» del presidente dell’Inps Antonio Mastropasqua il quale ha sostenuto che «se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale» (era il 5 ottobre del 2010). Puntuale, due mesi dopo, ecco la prima manifestazione della rivolta con la quale la generazione nata dopo gli anni Settanta – quella del lavoro indipendente, intermittente e precario – sfiducerà un sistema sociale e politico che non assicura il principio di solidarietà tra le generazioni, manca di equità poiché non restituisce in servizi quanto prende con le tasse e nega il futuro a chi le tasse e i contributi non li versa perché non ha un lavoro che rende possibile questo atto di cittadinanza.
Il conflitto con il quale si apre il nuovo anno verte sul senso della «fiducia» che il governo ha acquistato sotto banco togliendola al paese e che gli studenti hanno rovesciato urlando: «Noi non siamo sfiduciati». L’ambiguità dello slogan – il governo non ha più fiducia in se stesso, noi invece ce l’abbiamo – ha ormai rivelato una felice intuizione. La «fiducia» è un bene primario nella società del populismo mediatico. Nel corso della modernità è stata ritirata agli individui e trasferita ai «sistemi esperti» delle istituzioni. La «fiducia» non viene data allo «specialista», contro il quale cresce lo scetticismo, per non dire l’odio, ma al «sistema esperto» da lui rappresentato. Quel medico sarà anche bravo, ma mi rivolgo a lui perché rappresenta il sistema sanitario (meglio privato, che pubblico). Di quel docente non mi fido, ma è l’unico che può giudicare la tesi e farmi laureare. Disprezzo quel politico che si fa comprare e vende i suoi voti, ma senza di lui la democrazia non può continuare a celebrare la sua finzione.
Il movimento che in una settimana ha scelto la via del tumulto democratico insieme alla via istituzionale del dialogo con il Quirinale non ha solo revocato la fiducia agli «specialisti» (in questo caso sarebbe un movimento populistico di stampo legalitario), ma ha cancellato il mandato ai «sistemi esperti» di rappresentare la propria vita e le sue aspettative. Ciò che davvero è stato sfiduciato il 14 dicembre è l’ideologia populistica che nasce dalla necessità di creare «fiducia» tra il venditore e l’acquirente di un prodotto attraverso meccanismi di autogestione del cittadino responsabile che impara sin dalla tenera età a gestire i crediti e i debiti di una vita in perdita: di lavoro, di reddito, di garanzie, di speranze.
Non c’è motivo di ritenere che il 22 dicembre le condizioni di questa «sfiducia» siano venute meno. Non solo perché Napolitano ha riconosciuto che la «democrazia è sotto scacco», ma perché con la crisi occupazionale e la precarietà di massa è venuta meno la fiducia nella moneta di scambio di questa «democrazia». Una laurea, una famiglia, una raccomandazione, un «capitale reputazionale» non danno ormai più nulla in cambio. Contrariamente a quanto scriveva il linguista Émile Benveniste, oggi dare «credito» non obbliga un soggetto esperto a restituirlo ai suoi amministrati. Logica vuole che i governati non vogliano più obbedire ad un patto che regola uno scambio fasullo. In Italia i «giovani», come i loro fratelli maggiori, hanno stracciato le regole del patto e hanno dichiarato la loro «sfiducia».
Di solito alla «sfiducia» viene attribuito un valore negativo. Sono «sfiduciati» coloro che non cercano più un lavoro a tempo pieno (per la Cgia di Mestre tra i cassintegrati gli sfiduciati sarebbero diventati 600 mila solo nel 2010, per un rapporto Ires Cgil-Istat il totale ammonterebbe a 1,5 milioni). Dapprima con l’«indisponibilità» dei ricercatori e, in seguito, con la «sfiducia dal basso» degli studenti al governo, il movimento universitario ha dimostrato che la «sfiducia» ha un significato attivo quando si rivolge ai sistemi di certificazione delle competenze e del valore di una prestazione, quelli che la riforma Gelmini dell’università (o quella Brunetta della pubblica amministrazione) istituiscono con la burocrazia perversa della valutazione meritocratica.
Un’interpretazione onesta dell’incontro al Quirinale deve assumere il dato che il movimento non ha chiesto al Presidente della Repubblica di restaurare le antiche formule della democrazia rappresentativa – compromesse da una crisi che va ben oltre il berlusconismo – e nemmeno una democrazia presidenziale. Ha invece dimostrato l’esistenza di un processo in cui comunità ultra-qualificate di studenti, precari e ricercatori vogliono dotarsi di un potere costituente che regola la vita istituzionale e quella produttiva, mentre cresce il desiderio di governare autonomamente il proprio destino e quello delle istituzioni della conoscenza. Quando gli studenti torinesi hanno affisso al portone di Palazzo Nuovo le tesi di un’altra riforma dell’università – come fece Lutero con le sue 95 tesi – hanno annunciato l’inizio di questo processo. Se a questo aggiungiamo che sono almeno due anni che tra gli studenti e i ricercatori si continua a parlare di «autoriforma» dell’università e di «autoformazione», allora è possibile sostenere che, insieme alla democrazia del tumulto, stiamo assisstendo alla nascita di un’inedita capacità giusgenerativa dei movimenti che si regge sul conflitto e sul desiderio di creare istituzioni più giuste e più libere.
Certo, converebbe a tutti, e persino al mondo politico italiano, che il Belli avrebbe volentieri definito «cadavere di morto», ascoltare la nostra «gioventù tradita». Bisogna però fare attenzione a non confondere il grano con il loglio. Stiamo assistendo alla nascita di un atteggiamento fiero e lungimirante, pragmatico e spirituale, al quale manca ancora una forma. Ci penseranno i suoi portatori a trovarne una. Ma se volessimo provare a descrivere questa fierezza, non possiamo che ricorrere alle parole di Niccolò Machiavelli: «Li buoni esempi nascono dalla buona educazione e dalle buone leggi. Le buone leggi da quelli tumulti che molti dannano. Chi esaminerà il fine d’essi, non troverrà ch’abbian partorito esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà».
Guida al mondo che verrà nelle prossime settimane, a partire dallo sciopero generale della Fiom del 28 gennaio quando è probabile che il movimento universitario torni nelle strade. La crisi peggiorerà ogni giorno, l’indignazione conquisterà espressioni virtuose, i tumulti riveleranno il desiderio di un «bene comune» e saranno accompagnati dal desiderio di una nuova «repubblica» per favorire la nascita della «publica libertà». In Italia chi è oggi all’altezza di questo desiderio?
da il manifesto