Nel Carroccio non esiste un’unica strategia. E sul federalismo si cercano sponde nell’opposizione.
C’è un dato utile per capire quel che sta accadendo nella Lega: il vero elemento di destabilizzazione del governo Berlusconi, che sta in piedi per tre soli voti di maggioranza. Gli ultimi sondaggi segnalano che l’inarrestabile corsa del Carroccio verso il 13 per cento (12,8 certificato da Euromedia) s’è fermata ed è iniziata la discesa. Dati Digis (dal 12,4 di fine novembre all’11,5), dati Emg (11,4) e Lorien (dal 12,7 del 13 dicembre all’11,7 della vigilia di Natale).
Dati che allarmano Bossi, che innervosiscono la Lega, la rendono inquieta, instabile e che, per la prima volta, la paralizzano: rendendola incapace di decidere. Con conseguenze nefaste per Berlusconi, che è appeso alle scelte leghiste.
Elezioni o no? Dalla rottura di Fini e fino a qualche mese fa nella Lega c’erano due fronti. C’era chi puntava alla mietitura dei voti prima che la stagione peggiorasse con danni al raccolto e chi non voleva scossoni a Roma per tenersi un interlocutore governativo certo. La Lega ministeriale (Bossi, Maroni e Calderoli) era attestata sulla prima linea, la Lega del territorio dei governatori sulla seconda. Col passare delle settimane questa geografia di posizioni interne s’è modificata: in particolare il trio ministeriale s’è disarticolato.
Maroni ha fatto asse con il competitor Tremonti con cui condivide l’idea di elezioni che, per entrambi, lascia intravedere grandi opportunità personali: sia in caso di vittoria di Pdl-Lega, sia in caso di sconfitta parziale (conquista della camera e perdita del senato). Mentre Calderoli, nemico storico di Maroni da posizioni “di destra”, si è ritrovato isolato e impigliato nel micidiale rompicapo della riforma federalista di cui – viste le condizioni di Bossi ministro delle riforme – deve occuparsi a tempo pieno e del cui successo (o naufragio) ha finito per portare di fatto, suo malgrado, l’intera responsabilità.
Bossi è rimasto nel limbo, un po’ di qua un po’ di là, più che altro ha gestito i rapporti con Berlusconi. Lasciando che per lunghi mesi Calderoli e Maroni gestissero quelli informali con Fini: l’ago della bilancia dalle cui scelte, fino al 14 dicembre, dipendeva la sorte della maggioranza. Poi, dal 14, Maroni e Calderoli hanno serrato i giochi delle loro partite personali, sempre dietro l’immagine di assoluta, granitica unità attorno a Bossi. Il quale non sa più che fare.
Maroni ha via via rafforzato l’alleanza tattica con Tremonti, fondata su una parallela prospettiva di nuovi ruoli – a partire dalla premiership – suscitando forti sospetti di Berlusconi. Calderoli, all’opposto, s’è lanciato in un’offensiva diplomatica verso il Pd, la cui astensione è vitale per garantire un federalismo il più possibile condiviso ed evitare il rischio di referendum abrogativo. Ma Calderoli ha anche mantenuto i suoi contatti con Fini, sugli aspetti costituzionali del federalismo e senato federale. Manovre di avvolgimento che produrrebbero un quadro di stabilità e non già di precipitazione elettorale. Perciò l’operazione è sabotata da Tremonti attraverso il no ai soldi per le riforme. Ed è per proteggersi dai fulmini del potente “elezionista” Tremonti che Calderoli, nelle ultime ore, ha dovuto alzare il prezzo delle trattative con il Pd di Bersani.
In questo fragile e fluido contesto è esploso il caso delle “cimici” di Bossi, confermando i peggiori timori di Berlusconi su una Lega instabile. «Si stanno facendo la guerra tra di loro», si sibila tra gli uomini di Berlusconi.
Nel senso che o la storia delle microspie è inventata di sana pianta Bossi ha inteso tirare un siluro, a freddo, al ministro Maroni che dovrebbe tutelarne la sicurezza o è vera: Bossi era spiato persino in casa e allora il siluro contro Maroni è ancora più forte. Bossi spiato, come Berlusconi fotografato o registrato da escort che entravano e uscivano dal residenze teoricamente sotto protezione di servizi di sicurezza di stato. Berlusconi e Bossi, due vecchi leoni che stanno perdendo i denti. Altri e altro s’avanza.
da www.europaquotidiano.it
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«Federalismo o voto? Come Tremonti gioca con la Lega», di Raffaella Cascioli
Gli stop-and-go di Calderoli, mentre Bossi punta a incassare il sì subito
La tentazione c’è e, proprio in queste ore, c’è chi sta decidendo se sacrificare sull’altare dei giochi politici il cuore della riforma del federalismo fiscale che, è ormai evidente a tutti, non si può fare a costo zero.
A giudicare dall’intervista rilasciata ieri a Il Sole 24 Ore dal ministro per le riforme Roberto Calderoli, di fatto indisponibile a confrontarsi sul merito, più che dalle parole pronunciate da Umberto Bossi prima della cena con Tremonti («il federalismo è già pronto» ma «se non ci sono i numeri preferisco le elezioni»), si potrebbe quasi pensare che nella Lega aumentino i fautori di chi punti a staccare la spina al governo.
Che dire però se ad essere maggiormente tentato a far saltare il banco sia Calderoli piuttosto che il senatur? I segnali inviati nelle ultime settimane dal ministro per le riforme sono al riguardo inequivocabili e indicano come l’asse Calderoli- Tremonti abbia rotto definitivamente gli indugi. E il perché è presto detto. Proprio Calderoli, che già in occasione della legge delega è stato disposto a stravolgerla purché uscisse condivisa e che in questi mesi ha cercato non solo il confronto ma anche la mediazione con le altre forze politiche (Pd compreso), si sarebbe convinto che è il momento di giocare il tutto per tutto. Confortato in questo, anzi supportato, per non dire ispirato dal ministro dell’economia Giulio Tremonti. Un asse in cui si salderebbero ambizioni differenti quanto complementari.
Se infatti Calderoli si giocherebbe in questo modo la leadership nella Lega mantenendo salda tra l’altro la bandiera del federalismo e ipotecando in modo inequivocabile la successione a Bossi, è Tremonti a soffiare sul fuoco sapendo che le sue chance di arrivare a palazzo Chigi scadono velocemente. Più possibilista il senatur che, a un passo dal veder coronato il sogno del federalismo, vorrebbe incassarlo e subito.
Se nelle prossime ore si capirà meglio quale linea è destinata a prevalere, a pochi giorni dalla ripresa dei lavori parlamentari mentre un premier sempre più impaurito dalla richiesta di ricorso alle urne continua a sbandierare risultati economici strabilianti del suo governo, c’è chi medita di raccogliere consenso sventolando una bandiera federalista che di fatto ancora non esiste visto che al momento l’unico decreto consistente che ha preso il largo è quello sul federalismo demaniale. Chi è convinto che Bossi stia sacrificando la sostenibilità finanziaria dei comuni italiani sull’altare di un gioco politico che serve solo al suo partito è Marco Causi, deputato del Pd e vicepresidente della Bicameralina che da martedì prossimo sarà impegnata a esaminare il decreto attuativo sulla fiscalità comunale in scadenza il prossimo 28 gennaio.
«Un gioco politico – spiega Causi a Europa – in cui non si tiene in alcun conto il merito ma, anzi, si preferisce agitare una bandiera incuranti del fatto che finirebbe per condannare i comuni a un periodo di instabilità e insostenibilità finanziaria».
Non è un caso, infatti, che alla fine delle audizioni sul decreto i servizi parlamentari abbiano raccolto un dossier di oltre 40 pagine con punti e osservazioni critiche su un provvedimento che, se approvato così com’è, negherebbe nei fatti l’autonomia finanziaria ai comuni. Per Causi provocherebbe forti distorsioni nelle basi imponibili comunali non solo tra comuni del nord e quelli del sud ma anche tra quelli turistici e non, inoltre non presenterebbe alcun coordinamento con l’altro decreto sulla fiscalità regionale con effetti distorsivi nella sovrapposizione dei tributi. «Senza contare che il governo si è totalmente dimenticato – conclude Causi – di dire qualcosa sulla Tarsu ovvero sulla seconda imposta comunale».
E se per Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni economiche del Pd, l’ultimatum di Calderoli è un bluff tutto giocato all’interno della maggioranza e del governo visto che poi «la partita più importante è quella che si gioca sulla fiscalità regionale», per il capogruppo del Pd in bicameralina Walter Vitali il nodo sulla cedolare secca sugli affitti, per il quale Mario Baldassarri di Fli ha chiesto lo stralcio che Calderoli non intende concedere, con una perdita di gettito di 2,5 miliardi di euro per il biennio 2011-2012 potrebbe essere dirimente.
«Noi non ci facciamo condizionare dalla contingenza politica – spiega Vitali – vogliamo la piena attuazione della legge 42 ma abbiamo forti riserve sul merito del decreto». Non solo sulla cedolare secca che, per il Pd, deve riguardare solo i nuovi contratti di affitto ma anche per l’Imu il cui gettito a regime sarebbe garantito solo dai non residenti. «Non mi pare che Calderoli intenda affrontare il merito del provvedimento – commenta Vitali – Senza contare che non è vero, come sostiene, che intendiamo reintrodurre la tassazione sulla prima casa. Noi proponiamo come in Francia un’imposta sui servizi non aggiuntiva ma sostitutiva della Tarsu e dell’addizionale Irpef. Siamo disposti a sfidare il governo sui contenuti, sempre che il ministro accetti il confronto».
da www.europaquotidiano.it
sull’artgomento vedi anche il post di ieri