lavoro, partito democratico, politica italiana

«Cari Cofferati e Damiano questa è una sconfitta…», di Carlo Ghezzi*

Ho letto ieri su l’Unità le interviste di Cesare Damiano e di Sergio Cofferati sul caso Fiat e devo francamente dire che entrambe non mi hanno convinto a partire dall’analisi di fondo su quanto accaduto.

Innanzitutto non partono dal fatto che alla Fiat la Fiom-Cgil ha subito una pesante sconfitta paragonabile a quella gravissima, subita sempre a Mirafiori, nel 1955 nel rinnovo della commissione interna e nel 1980 dopo la marcia dei 40.000. Poco importa se, come sottolinea Damiano, l’accordo di Mirafiori sia un po’ meno peggio di quello di Pomigliano, nè regge la sua tesi di una lettura articolata. E’ un accordo a perdere. Punto e basta.

Quando si perde una battaglia non si può negarlo, si può solo cercare di ottenere un trattato di pace meno umiliante e rimettersi alacremente al lavoro per ricostruire il proprio futuro. Anche quando vi sono lesioni dei diritti contrattuali sottoscritti tra le parti. E non è affatto la prima volta che accade.
Voglio ricordare a Cofferati che il 31 luglio del 1992 – insieme a Bruno Trentin – fu tra coloro che, persa un’altra fondamentale battaglia da parte della Cgil, isolata oltre che dal padronato e dal governo anche dalla Cisl e dalla Uil, decise di firmare non la cancellazione di un accordo aziendale o di un contratto nazionale, ma addirittura dell’istituto della scala mobile per 17 milioni di lavoratori in cambio di nulla.

Altro che appellarsi allo Statuto della Cgil. Trentin prima firmò, poi si dimise. E Sergio sostenne le sue posizioni. Allora ebbero il coraggio di spiegare che quando si perde occorre prenderne atto, non si deve nascondere la testa sotto la sabbia e, al contrario, si lavora per costruire la rivincita. Cosa che magistralmente avvenne con l’accordo con il governo Ciampi e con la Confindustria di Luigi Abete il 23 luglio del ‘93.

Non si può solo evidenziare l’intransigenza dell’avversario. Occorre per prima cosa mettere in campo le proprie proposte per affrontare la crisi della Fiat in un settore che ha quasi il 40% di sovracapacità produttiva. Un settore nel quale Marchionne non può illudersi di risolvere tutto producendo automobili scadenti, che fatica a vendere in Italia come all’estero, tagliando le pause e comprimendo i diritti sindacali.

Mi pare scorretto non mettere in adeguato rilievo che, all’unanimità, i presidenti delle categorie di Confindustria hanno, almeno per ora, girato le spalle alla Fiat che è uscita da Federmeccanica. È una situazione esplosiva per questa organizzazione che subisce una scissione da parte della più grande azienda poiché la maggioranza degli imprenditori italiani riafferma il valore dei contratti e di un sistema di regole. Si fatica a trovare commenti su questa notizia nelle pagine dei grandi giornali. Anche altre prese di posizione mi appaiono incomprensibili. L’arroganza e la miopia di Marchionne sono osannate come scelta di modernità dalla stampa e dal ministro Sacconi. Ma anche da mezzo Partito democratico che non comprende come al sistema di relazioni vigente in Europa non viene contrapposto il modello americano, che pure a noi non piace, ma a quello della Corea del Sud e di altri paesi emergenti.

Il non partire da qui fa venire meno il quadro di riferimento nel quale collocare qualsiasi idea di politica industriale, di relazioni in azienda, di modello di società. Giorgio Tonini sostiene che il Pd è nato per cambiare e deve perciò misurarsi con tutte le sfide poste in campo. D’accordo, ma la sfida per l’innovazione se non pone a riferimento il fatto che lo sviluppo debba essere coniugato con un sistema di regole e di diritti confonde ogni confronto di merito e rischia di essere senza senso. L’Italia, afferma la Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro, ma senza il rispetto dei suoi diritti e della sua dignità questo non è il lavoro di cui parla la nostra Carta, è un’altra cosa. Ne è consapevole il Pd? Il primo ministro Merkel ha messo alla porta Marchionne quando ha capito quale musica veniva proposta. E l’Italia vuole restare in Europa?

*Presidente della Fondazione Di Vittorio

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Intervista a Cesare Damiano: «La Fiom firmi, autoescludersi è un grosso errore», di Felicia Masocco
«Camusso ha ragione, se vincono i sì l’adesione critica è l’unico modo per restare in gioco. È già accaduto nel ‘96 nel rinnovo dell’integrativo Fiat»

La via indicata da Susanna Camusso e Fausto Durante «è quella da seguire» per Cesare Damiano. L’ex dirigente Fiom ed ex ministro del Lavoro ha una posizione opposta a quella dell’amico Sergio Cofferati e ritiene che «un’adesione critica » all’accordo sia preferibile all’autoesclusione della Fiom da Fiat Mirafiori. Peraltro «non sarebbe un inedito», racconta il parlamentare Pd: qualcosa di simile avvenne nel ‘96 per il rinnovo dell’integrativo in Fiat.
Inedito è invece quello che Damiano chiama «asse politico- sindacale», la «crescente convergenza» di Idv e Sel sulle posizioni Fiom «a scapito dell’autonomia del sindacato». Quanto al Pd, che non converge e si divide, la direzione «deve discutere di questo argomento e votare un documento vincolante per tutti».
Non si sa bene cosa sarà Fabbrica Italia intanto h adiviso il sindacato, la politica e ora anch e la Cgil. Lei è d’accordo con Susanna Camusso, se vincono i Si al referendum la Fiom deve «firmare tecnicamente».
Perché, se non è d’accordo con i contenuti?
«Perché, soprattutto se vince il Si, non sarebbe spiegabile un’autoesclusione della Fiom: con una firma tecnica o, come si diceva un tempo, “una adesione critica” che non rinuncia a rilevare le criticità dell’accordo, si può stare in gioco. Tra le altre cose verrebbe transitoriamente risolto il problema della rappresentatività nei luoghi di lavoro.Comela Cgil, privilegio una posizione meno rigida, più politica».
Sergio Cofferati, suo amico e alleato in numerose battaglie, la pensa diversamente. Dice che non si può fare. Cosa risponde?
«Non condivido la posizione di Cofferati, credo che un puro e semplice richiamo allo statuto Cgil sia opinabile. Questa situazione ha caratteristiche politiche».
C’è anche del merito, però…
«Ribadisco che questo accordo va valutato in modo articolato: su turni e mensa, ad esempio, ci troviamo di fronte a una replica dell’accordo di Melfi. Non sottovaluto il fatto che, seppure in modo insufficiente, rispetto all’accordo di Pomigliano quello di Mirafiori sospende per il momentolo spostamento della mensa a fine turno e alleggerisce la norma sull’assenteismo».
Dice che non è tutto da buttare?
«Sto dicendo che sui temi della competitività se non vogliamo rimanere schiacciati tra gli stabilimenti statunitensi e quelli serbi, dobbiamo accettare la sfida. Mentre c’è da fare una battaglia intransigente su due punti. Primo: si deve pretendere che i lavoratori possano scegliere i propri rappresentanti con libere elezioni sindacali. Secondo: nell’accordo c’è un punto ambiguo che riguarda lo sciopero: unconto è vincolare i sindacati firmatari anondichiarare scioperi nei sabati comandati, un altro è trasferire il vincolo e le sanzioni in capo ai lavoratori. Questo è inaccettabile. Perché lo sciopero è un diritto costituzionale e perché solo con la legge del comando e senza partecipazione l’obiettivo della competitività nonsi raggiunge. Voglio inoltre far presente che la formula “dell’adesione critica” non sarebbe un inedito per la Fiom».
È già accaduto?
«Si, nel 96, per l’integrativo Fiat. Fim e Uilm erano d’accordo sul meccanismo del premio di risultato e siglarono, la Fiom no. Io ero capo delegazione, chiedemmo una pausa di riflessione e chiedemmo il mandato dei lavoratori attraverso assemblee. Successivamente, firmammo».
Landini non la pensa così e in Cgil si è aperto un duro scontro, addirittura c’è chi ipotizza scissioni tra la categoria e la confederazione. È verosimile?
«Mi auguro che nessuno lo immagini, anche se vedo una crescente convergenza politica sulla Fiom, da parte di Idv e di Sel ad esempio, che può prefigurare un inedito asse politico-sindacale a scapito dell’autonomia del sindacato».
Ma chi decide? La Fiom o la Cgil?
«Da vecchio sindacalista credo che l’ultima parola spetti sempre alla confederazione, al suo direttivo. La Cgil ha una costituzione materiale in cui la confederalità fa premio».
Prima parlava della convergenza di Idv e Sel sulle posizioni Fiom. Non ritiene che a favorirlo sia il Pd? Con le sue divisioni sulla Fiatnonha espresso una posizione univoca…
«Il responsabile Economia e Lavoro ha espresso la posizione del partito, ma ancora una volta il Pd non è stato in grado di rappresentare una sintesi tra le varie opinioni. Mi auguro che nella direzione del 13 gennaio se ne parli e si votiun documento vincolante per tutti. Penso che per il Pd si ponga il problema di ricostruire la sua identità. Avevamo pensato, sbagliando, di costruire un nuovo partito rinunciando alle identità di origine.
Ora è necessario, anche scontrandoci alla luce del sole, far valere il vincolo della ricerca di una sintesi».

da L’Unità del 4.1.2011

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Intervista a Sergio Cofferati «Innovazione Fiat? Vuole solo sfruttare di più gli operai», di Rinaldo Gianola
L’ipotesi della firma della Fiom «è surreale», dice l’ex segretario Cgil. «Marchionne è arrogante, non si permetterebbe questi toni in America»

Sergio Cofferati ha espresso una critica severa al patto di Mirafiori dopo aver bocciato all’epoca l’accordo
di Pomigliano.
Cofferati, in quale veste esprime la sua opposizione al piano Fiat?
«Sono nettamente contrario in tutte le vesti possibili: come iscritto alla Cgil,comeiscritto al pd, come parlamentare europeo. È giusto quando si hanno opinioni divergenti da quelle dei gruppi dirigenti del partito e dell’organizzazione non nasconderle ma esplicitarle».
Lei afferma che la Fiom non può firmare nemmeno“tecnicamente ”il patto di Mirafiori. Perchè?
«Il problema non si pone, la questione della firma è surreale. La Fiom non può firmare, glielo vieta lo staauto della Cgil. La delibera numero 4 attuativa dello statuto Cgil vieta all’organizzazione di presentare piattaforme o firmare accordi nei quali siano contenute lesioni ai diritti contrattuali o di legge come è nei casi di Pomigliano e Mirafiori».
Marchionne dice che se vincono i no, la Fiat non investe. Come se ne esce?
«La situazione è molto difficile, i problemi sono gravi e rilevantissimi. La questione oggi è politica: Marchionne ha un atteggiamento inaccettabile. Nega il confronto e la dialettica sui luoghi di lavoro, e devo dire che non è molto rispettoso di quelle organizzazioni che hanno firmato quando mette in dubbio che non siano maggioritarie in fabbrica. Il caso Fiat è politico perchè è lo spartiacque tra lavoratori e impresa, nella cultura del lavoro e nei diritti».
Ma Marchionne affascina anchei suoi colleghi del pd, c’è chi suggerisce di votare sì…
«Vuol dire che la sinistra è cambiata molto, in profondità. Sono sorpreso da certe dichiarazioni, da chi vede una “parte buona” in questo accordo. Ma dove? Agli operai di Mirafiori si promettono 30 euro lordi al mese perchè aumenta il loro sfruttamento. Si impone agli operai di lavorare di più, anche il sabato notte, con lo straordinario obbligatorio e il modesto aumento, una miseria, deriva dalle regole dei turni, non c’è altro. La Fiat punta solo ad aumentare lo sfruttamento. La politica, le istituzioni dovrebbero chiedere conto alla Fiat del piano industriale, ma Marchionne non vuole dare i dettagli. Le sue affermazioni sono gravissime e non vengono contestate. Marchionne non si permetterebbe questo comportamento arrogante negli Stati Uniti».
Cosa c’è di diverso negli Usa?
«L’atteggiamento delle istituzioni. Marchione non si è permesso di dire a Obama “non ti dico cosa voglio fare della Chrysler”, ha avuto aiuti sulla base di ipotesi discusse e condivise con l’amministrazione Usa».
In Italia, invece?
«In Italia Marchionne dice: faccio quello che voglio. Le istituzioni devono farsi carico delle conseguenze delle scelte Fiat. Tocca alle istituzioni occuparsi di Termini Imerese dopo che la Fiat ha incassato tutti gli incentivi possibili, dopo aver chiesto soldi, rottamazione, cassa integrazione. Quando una fabbrica non serve più la Fiat se ne libera, scarica le conseguenze sulla comunità, dà uno schiaffo alle istituzioni».
Ma la Fiat chiede una nuova organizzazione del lavoro per investire e recuperare competitività.
«La Fiat ha un modello di competizione che passa dalla sistematica, esclusiva riduzione dei costi. Non ci sono ricerca, innovazione, conoscenza sui prodotti e sui modelli organizzativi del lavoro. Chi nel pd e nel sindacato aveva sostenuto che l’accordo di Pomigliano andava firmato perchè era un’eccezione dovrebbe leggersi il documento di Mirafiori e riflettere. E dovrebbe confrontare la strategia Fiat con il documento di Lisbona 2000 e col piano europeo di sviluppo 2020: il modello Marchionne va contro le politiche europee sostenute dalla sinistra italiana. Il pd non può avere due teste: se stiamo con l’Europa non possiamo stare con Marchionne».
E gli industriali italiani cosa fanno?
«Il silenzio di Confindustria è fragoroso, sta accettando la distruzione dell’accordo 1993, un modello efficace di relazioni industriali. Le imprese pagheranno un prezzo alto dalle scelte della Fiat».
Cosa direbbe a un operaio di Mirafiori che si appresta a votare?
«Gli spiegherei perchè la Fiom è contraria, perchè l’accordo è sbagliato. L’operaio deve votare come meglio crede ma deve sapere che la Cgil è contraria. Le grandi organizzazioni sono autorevoli e rispettate quando difendono le regole e le loro posizioni sono trasparenti e credibili».
Cosa sarà della Fiat?
«Mi pare stia diventando un polmone della Chrysler, la Fiat è sempre più marginale. In Europa il mercato è andato male, ma la Fiat perde 15 punti in più degli altri. I numeri sono impietosi».

da L’Unità del 4.1.2011

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«Bersani vedrà Landini. Sull’accordo della Fiat si spacca anche l’Idv», di Simone Collini
Lunedì incontro tra il leader del Pd e quello dei metalmeccanici. Stoccate di Di Pietro ai Democratici. Donadi contro la strategia dell’ex pm: «Sbagliato sposare acriticamente la posizione Fiom»

L’accordo Fiat continua ad agitare le acque nel centrosinistra e anche all’interno dei singoli partiti. Antonio Di Pietro nei giorni scorsi aveva annunciato l’intenzione di costruire «un fronte di resistenza» insieme alla Fiom, e ieri ha compiuto un primo passo incontrando il segretario generale dei metalmeccanici Maurizio Landini e anticipando che l’Idv parteciperà allo sciopero generale indetto dalla Fiom per il 28. Ma l’ex pm ha approfittato della conferenza stampa seguita all’incontro per lanciare stoccate al Pd, invitandolo a «non accontentarsi di un tozzo di pane» offerto da Marchionne e a «non rincorrere chimere centrodestrorse». Parole che non sono piaciute al Pd: «Non deve essere certo Di Pietro a darci lezioni e a convincerci di alcunché, anche perché noi restiamo fermi sull’idea di un’autonomia vera del nostro partito sia dai sindacati sia da altri rappresentanti d’interessi, Marchionne compreso», dice la deputata del Pd Alessia Mosca accusando l’ex pm di pensare solo a «presidiare una nicchia di consenso».
Ma la posizione di Di Pietro sull’accordo di Pomigliano non piace neanche a Massimo Donadi. Già poche ore dopo che l’ex pm aveva annunciato il «fronte di resistenza», il capogruppo dell’Idv alla Camera aveva giudicato un errore «sposare indistintamente le ragioni della Fiom». Ora che Di Pietro ha compiuto il primo passo, Donadi ha ribadito il concetto, avvisando che all’esecutivo nazionale fissato per la metà del mese è pronto a dare battaglia.
Quanto a Landini, ha approfittato della conferenza stampa per far sapere che quello con Di Pietro non sarà il solo incontro con leader politici. Il segretario della Fiom vedrà lunedì Pier Luigi Bersani e poi anche con Nichi Vendola. «Alle forze politiche ha spiegato il leader dei metalmeccanici Cgil non chiediamo di schierarsi, ma li informiamo sul nostro punto di vista, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno».
Bersani dirà a Landini quello che è andato ripetendo dal giorno dell’accordo, pubblicamente o in colloqui riservati, e cioè che gli investimenti sono «prioritari», che non va lo «strappo sui diritti sindacali», che i toni di sfida di Marchionne sono un errore perché invece di favorire un confronto sereno acuiscono la tensione, ma che sarebbe anche un errore, da parte dei sindacati, cercare di «isolarsi reciprocamente». Per il leader del Pd a questo punto devono essere governo e Parlamento a discutere una riforma dei meccanismi di rappresentanza del mondo del lavoro. Una proposta di legge in tal senso è stata depositata da tempo Pd (ottobre 2009), ma a questo punto è urgente riportarla in primo piano. Anche perché può essere il solo modo per favorire una ricomposizione tra i sindacati.

da l’Unità del 5.1.2011

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