Questo accordo rappresenta una regressione sul terreno della democrazia. In nome di un obiettivo giusto – spiega Stefano Fassina, responsabile economico in segreteria del Pd – cioè garantire l’esigibilità degli accordi sottoscritti, quest’accordo nega la rappresentanza a un pezzo importante del mondo del lavoro. Invece ci sono tutte le condizioni per poter coniugare le esigenze di certezza degli accordi sottoscritti e le garanzie di rappresentanza di tutti i lavoratori. È una vicenda, ora su una china molto pericolosa, che però può presto essere ricondotta in un quadro di normalità democratica e di efficienza».
E in che modo? «Dopo le proposte di Camusso e di Bonanni, anche il presidente di Federmeccanica Ceccardi fa riflessioni molto ragionevoli: auspichiamo che tutta Confindustria proceda su questa direzione. Non c’è ragione per cui le newco Fiat – una volta siglato un accordo tra le parti sociali sulle regole, che dia garanzie sull’esigibilità dei contratti – debbano stare fuori dal quadro interconfederale e dal contratto nazionale». Camusso ha definito l’intesa “autoritaria”; il sindaco di Torino Chiamparino invece la elogia. Qual è la posizione del Partito democratico? «L’intesa è positiva perché attiva un investimento importante, anche se vorrei capire dalla Fiat come e quando intende investire gli altri 18,8 miliardi previsti da Fabbrica Italia. Tuttavia per noi è un accordo sbagliato, che ci preoccupa: la modernità non può essere lavoro senza diritti. In Italia ci sono tutte le condizioni, data la cultura sindacale e politica largamente prevalente, per trovare soluzioni più equilibrate per tutte le parti in causa».
Cosa suscita la vostra preoccupazione? «È un accordo che rappresenta una regressione sul terreno della democrazia. Non si può negare la rappresentanza a una parte dei lavoratori. E poi, senza una convergenza sulle regole, si lascia il confronto sindacale ai rapporti di forza brutali e alla legge della giungla. La soluzione trovata a Mirafiori non funziona, perché si rischia di scatenare una conflittualità di cui né il paese né la Fiat hanno bisogno». E ora ci sarà una rincorsa delle imprese a imitare Marchionne? Il rischio c’è, ma ripeto, sono convinto che si possa evitare se le forze più responsabili sul versante sindacale, imprenditoriale e politico daranno un contributo per fissare un quadro di regole con garanzie per tutti, azienda, sindacati e lavoratori. Deploro da questo punto di vista l’atteggiamento del ministro del Lavoro. Credo però che sia possibile fare presto l’accordo sulle nuove regole. E poi riportare in questo quadro le newco Fiat, ricostruendo un clima utile e razionale per le relazioni sindacali».
La Stampa 29.12.10
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“Le regole dimenticate”, di Tito Boeri
DA POMIGLIANO a Mirafiori si ripete il copione. La politica si schiera a favore o contro Marchionne. Si parla di accordi storici, di svolte epocali oppure vengono invocati diritti fondamentali calpestati e violazioni della Costituzione. Sono tutte parole fuorvianti, pericolose perché di mezzo ci sono i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Il nodo vero è sempre quello delle regole della rappresentanza. Ed è perciò ancora più grave che non si sia cercato in tutti questi mesi di porvi rimedio.
La responsabilità ricade in eguale misura sul governo, che continua a ignorare il problema e punta in ogni occasione a dividere il sindacato, e sui vertici sindacali, giunti ai limiti dell´incomunicabilità. È un lusso che non ci possiamo permettere in uno dei momenti più critici della storia economica del paese.
Da quando il sindacato è diviso, le organizzazioni dei lavoratori non sono più nelle condizioni di garantire il rispetto degli accordi presi. Una minoranza può sempre intervenire dopo che l´accordo è stato siglato e impedirne l´attuazione, mettendo in atto una serie di scioperi e di azioni dimostrative che possono gravemente compromettere se non far fallire un investimento attuato coerentemente con i contenuti dell´accordo. Finché questo problema non verrà risolto, non solo avremo continue tensioni e interferenze della politica nelle vicende sindacali, ma soprattutto faremo fatica ad attrarre capitali esteri da noi. Per convincere un investitore a puntare sul nostro Paese bisogna metterlo in condizione di avere di fronte interlocutori in grado di prendere impegni cogenti circa il rispetto degli accordi sottoscritti. L´investitore sa bene che il potere contrattuale del sindacato aumenterà dopo che l´investimento è stato attuato. A quel punto non sarà più possibile dirottare le risorse altrove, cosa invece possibile prima, quando l´accordo è stato preso. Di qui il timore che il contraente voglia rimettere tutto in discussione, ottenendo condizioni più favorevoli dopo che l´investimento è stato realizzato.
Per attrarre grandi imprese da noi bisogna perciò tutelarle circa il rispetto degli impegni presi dalle organizzazioni dei lavoratori. Queste garanzie possono essere fornite da un sindacato unito oppure da una legge sulle rappresentanze sindacali che attribuisca al sindacato maggiormente rappresentativo in azienda, ai delegati eletti dai lavoratori, l´autorità di sottoscrivere accordi vincolanti per tutti. I lavoratori dovranno rispettarne i contenuti. Se poi l´accordo si è rivelato per loro insoddisfacente, sceglieranno altri rappresentanti alla prossima tornata elettorale. Esistono diversi disegni di legge che recepiscono questi principi e che da almeno 15 anni attendono di essere discussi in Parlamento. Del problema se ne parla peraltro fin dai tempi di Nenni.
L´accordo sottoscritto a Mirafiori, in assenza di queste regole, riconosce come rappresentanze dei lavoratori solo le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l´intesa. È una scelta chiaramente inaccettabile. Esimi giuristi hanno sottolineato come questo comma dell´accordo Mirafiori sia coerente con l´articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che garantisce diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni che abbiano stipulato almeno un contratto in quell´azienda. Trattandosi di una newco, ed essendo questo il primo e unico contratto stipulato, l´interpretazione alla lettera dell´articolo 19 implica che la Fiom che non firma non avrebbe diritto a costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Ma chi volesse costruire un sistema di relazioni industriali su questo principio di esclusione condanna il Paese alla conflittualità permanente. Non deve essere il datore di lavoro a decidere quali sono le rappresentanze dei lavoratori. Non possono che essere i lavoratori, con il loro voto, a scegliere chi li rappresenta.
Bene perciò che si apra al più presto quel tavolo sulla rappresentanza proposto da Susanna Camusso su queste colonne lunedì. Significative le aperture mostrate nei confronti di questa proposta dal presidente degli industriali metalmeccanici, Pierluigi Ceccardi, e dal segretario della Cisl, Raffaele Bonanni. Quest´ultimo ha rimarcato che le norme sulle rappresentanze dovranno essere decise dai sindacati e non dal Parlamento. Ma il costo dell´incapacità di trovare un accordo su queste norme lo pagano anche molti non iscritti al sindacato e molti giovani che non hanno ancora iniziato a lavorare. Stupisce perciò la sponda offerta a Bonanni dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i cittadini: «Un intervento del Governo in materia sarebbe autoritario». Un governo che vuole davvero attrarre investimenti dall´estero e che ambisce alla coesione sociale darebbe alle parti sociali un termine di tempo rapportato alle difficoltà attuali dell´economia italiana, diciamo un mese. Se queste in quel lasso di tempo non avranno trovato un accordo, sarà il Parlamento a legiferare in autonomia.
La legge sulle rappresentanze offrirebbe anche alla Fiom, sin qui il sindacato maggioritario fra i metalmeccanici, l´opportunità di rientrare in gioco. L´accordo di Mirafiori sulla carta non glielo consente, anche se dovesse cambiare idea. Il testo infatti prevede che “l´adesione al presente accordo di terze parti è condizionato all´assenso di tutte le parti firmatarie”. Un sindacato non può restare perennemente all´opposizione. Può farlo un partito politico, a vocazione minoritaria. Ma non certo un sindacato.
La Repubblica 29.12.10
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Mirafiori, parla Fassino: «Perché la Fiom sbaglia», di Mario Lavia
«I “maestri” dicevano: meglio un accordo doloroso che nessun accordo»
In poche parole, si può fare. Dinanzi all’ennesimo tornante impervio, il mitico movimento operaio torinese – si può ancora dire così? – si deve alzare sui pedali, guardarsi intorno e decidere se spingere o rallentare la corsa, sapendo che quest’ultima ipotesi la condanna a chissà quale inferno.
A Torino in questi giorni ci si interroga sulla questione-Fiat in tutta la sua concretezza e ascoltando Piero Fassino questo intreccio fra respiro storico e scelta dell’oggi si coglie bene. «Io ho avuto due maestri sindacali, Aventino Pace e Emilio Pugno, che a noi giovani dicevano: meglio un accordo che non ti soddisfa che nessun accordo. Perché, diceva Pugno, se i lavoratori non scelgono, ci pensa il padrone, a decidere…».
Da queste parole si capisce già dove pende il piatto della bilancia: «Da un punto di vista produttivo – spiega – ancorché oneroso, l’accordo ci sta. Non ci possiamo permettere di rinunciare ad un investimento che rilancia uno stabilimento come Mirafiori. L’alternativa sarebbe la sua chiusura, e Torino, e la Fiat, non sarebbero più le stesse». Detto da uno che sta per sottoporsi alle primarie per candidarsi a sindaco è un’affermazione non banale: e lui, fra parentesi, la battaglia delle primarie la sta prendendo serissimamente, «è un bel segno di forza».
Il famoso miliardo di euro promesso da Marchionne «è un investimento importante, l’attivazione di due modelli a Mirafiori è un sforzo notevole che significa lavoro per 15 mila persone: è evidente che in una situazione di crisi come l’attuale è una possibilità che non si può perdere».
O così o niente, la sintetizzano i critici della proposta del numero uno del Lingotto, quelli che dicono che erano più favorevoli gli accordi di dieci, venti anni fa. «Ma ricordiamoci che la Fiat è un operatore globale che fa i conti con un mondo diverso e che deve affrontare il tema della compatibilità con parametri diversi. Venti anni fa la Cina, il Brasile, l’Indonesia non c’erano, il mondo è cambiato…». Significa – piaccia o non piaccia – fare i conti con nuovi parametri di competitività. E quindi con regole diverse. «Ma su straordinari, pause, turni, nell’accordo c’è tutto quello che la Fiat aveva chiesto», rileva Fassino.
Non è questo il punto, per lui. No, lo scoglio vero è politico. Politico, nel senso della costituzione materiale del governo dell’azienda: se cioè esso debba essere guidato dalla ricerca del consenso o solo dalla affermazione del comando. «Sì, questo è il punto che suscita le obiezioni vere. Perché l’accordo stabilisce il principio che viene rappresentato solo chi sottoscrive l’accordo. Io capisco che Marchionne voglia essere garantito sulla applicazione dell’intesa ma se un sindacato viene discriminato, l’azienda il consenso non lo avrà mai. Questo è un punto da rivedere, bisogna trovare un’altra strada».
Qui si avverte l’allenamento alla mediazione politica. “Un’altra strada”: Marchionne sarebbe disponibile a seguirla? Non si sa. E comunque l’ipotesi è questa: «La strada c’è: un accordo fra sindacati e Confindustria, o anche fra sindacati e azienda, che stabilisca che un accordo viene sottoposto a referendum il cui risultato è vincolante per tutti, anche per chi quell’accordo non l’ha sottoscritto. Così l’azienda è garantita, però un sindacato contrario, una volta approvata l’intesa, non viene cancellato».
Un po’ l’uovo di Colombo. ma se il manager col maglioncino blu non ci ha pensato prima una ragione ci sarà. Comunque, questo “lodo” è sul terreno. È un punto su cui insiste tutto il Pd, che ieri ha parlato di una legge-quadro proprio per recepire l’esigenza che anche i soggetti non firmatari non vengano poi esclusi dalla rappresentanza.
Non è che un uomo esperto come l’ex segretario dei Ds non sappia che probabilmente ormai è tardi. L’accordo è stato firmato da Cisl e Uil. Il referendum dei lavoratori sarà fra poche settimane. Però insiste: «Dire no non si può». Sapendo anche che «se si dice no agli investimenti ci rimettono solo i lavoratori, non certo l’azienda, che se ne va a produrre i suoi modelli da un’altra parte». Il che testimonia una volta di più che il potere contrattuale degli operai è davvero bassissimo. Pare strano che i capi della Fiom non se rendano conto. Su questo l’esponente del Pd tace, i suoi pensieri sugli ultimi segretari dei metalmeccanici Cgil li lascia solo intuire. Il suo pensiero è che Landini stia commettendo un grave errore. Già, l’analisi dei famosi rapporti di forza, che fine ha fatto? L’antica “scienza della ritirata”, qualcuno se ne ricorderà…Quanti stop, ritorni indietro, mediazioni, quante volte il movimento sindacale ha accettato cose che il giorno prima parevano impensabili, da Lama a Trentin, e quante volte un azzardo è costato caro: sempre la Fiat, la vertenza del 1980, la marcia dei 40 mila. «Da quel 1980 in cui prendemmo una sonora bastonata – ha detto al Sole 24Ore un ex dirigente comunista dell’epoca, Renzo Gianotti – la sinistra riformista ha imparato. Il sindacato no».
Fassino conosce bene tutte queste cose. «Certo, nel movimento operaio torinese c’è anche questa componente massimalistica…Ma è sempre stata minoritaria». La grande Cgil è in una situazione obiettivamente difficile. Per Susanna Camusso non poteva esserci inizio più bruciante: «Ma nelle sue dichiarazioni la Camusso ha detto che non si può semplicemente dire no», nota l’ultimo leader della Quercia. Può darsi che in queste ore qualcosa si stia muovendo anche nell’orientamento dei sindacati. Anche nella stessa Fiom.
Oggi c’è una importantissima – e verosimilmente drammatica – riunione del comitato centrale della Fiom nella quale, contro l’intransigenza di Landini e Cremaschi, si batterà il “riformista” Francesco Durante, che presenterà una sua mozione di «adesione critica» all’intesa, in un senso non lontano dalle cose che ci ha detto Fassino. Nelle settimane forse più difficili della sua lunghissima storia, c’è da chiedersi se prevarrà il tradizionale pragmatismo degli operai torinesi. È probabile che davanti ai cancelli di Mirafiori ci si interroghi col cuore pieno di angoscia. Nessuna previsione a voce alta, ma ci è parso di capire che Fassino ipotizzi che i lavoratori, consapevolmente o meno, terranno ben presente la lezione dei “maestri”: «Meglio un accordo doloroso che nessun accordo».
da Europa Quotidiano 29.12.10