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"Caprera: la cricca e i suoi affari ultimi oltraggi all’Unità", di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

L’Italia di oggi nell’esemplare vicenda della Maddalena e del G8. «Il cielo quasi si velò come alla morte del Giusto, e gli elementi scatenati aggiunsero il loro fragore a quello del cannone, e i venti schiantarono le bandiere…» . Venne giù il diluvio a Caprera, racconta l’inglese di cuore italiano Jessie White Mario, eccezionale figura del Risorgimento, il giorno dei funerali di Giuseppe Garibaldi. Era l’8 giugno 1882. Erano venuti a migliaia, per l’ultimo saluto al vecchio condottiero spentosi la settimana prima dopo aver chiesto nell’ultima lettera al direttore dell’Osservatorio di Palermo «la posizione della nuova Cometa e il giorno della maggior grandezza» . E sotto la pioggia battente, mentre il mare mugghiava, ricorda un biografo, «appena deposto il feretro tutti fuggirono come anime perse nella bufera verso lo Stagnarello per cercare un imbarco…» . Come se fosse arrivato, di colpo, l’inverno.
Tredici decenni dopo, anche quelli della Protezione civile, i servitori perbene dello Stato e gli affaristi in giacca di lino se ne sono andati dalla Maddalena sotto una tempesta. Quella delle inchieste giudiziarie. E proprio come coloro che parteciparono alle esequie dell’Eroe dei due mondi, sui quali i garibaldini videro abbattersi la punizione di Giove pluvio perché era stata tradita la volontà del Vate di essere deposto su una catasta di mirto, agaccio e lentischio per esser bruciato come Patroclo su «un rogo omerico» , non tutti hanno trovato un’imbarco per andarsene senza danni. Non c’è posto migliore di Caprera e della Maddalena per racchiudere il senso dell’inchiesta che andiamo a finire dopo aver percorso tutta l’Italia per vedere com’è il Paese alla vigilia del Centocinquantenario dell’Unità. È tutto qui, a cavallo di queste isole stupende unite da un ponte-diga in faccia a Palau, nel Nordest della Sardegna. Il meglio e il peggio. La generosità più emozionante e l’egoismo più feroce. Il patriottismo ideale e l’immoralità indifferente al bene comune. L’Italia che amiamo, l’Italia che ci fa schifo.
Anche da Caprera, l’eremo scelto da Garibaldi per viverci con i figli e un po’di amici («una vera repubblica democratica e sociale — scrisse Michail Bakunin—, non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano…» ) gli ospiti rubarono qualcosa. Racconta Augusto Zedda nelle sue Cronache isolane che la pira omerica di quella specie di «santo ateo» che a Palermo era stato salutato come fratello di Santa Rosalia, venne saccheggiata dai fedeli a caccia di reliquie. Un rametto di lentischio, una foglia d’alloro, qualche bacca di mirto. Un secolo e passa dopo, i furbetti del G8 si sono portati via alcune decine di milioni di euro. E se il Gran Nizzardo invocava la sua isoletta chiamandola «Oh, caro scoglio!» , la Maddalena si è rivelata, per le tasche degli italiani, carissima. Al punto che non si sa più esattamente quanto è stato speso. C’è chi dice, rifacendosi ai dati ufficiali, 327 milioni. Chi spara 377. Certo è, spiega il ristoratore Andrea Orecchioni, che questo «è il primo inverno morto da decenni. Prima c’erano gli americani della base smobilitata a gennaio 2008 e i marinai della piazzaforte italiana, poi il formicaio della Protezione civile, architetti, tecnici, operai che preparavano in fretta e furia il vertice internazionale, poi quelli che si erano fermati per finire i lavori avviati… Fatto sta che quest’inverno non c’è nessuno. Nessuno» .
Orecchioni, detto Cicerone perché da ragazzo se un turista chiedeva informazioni al padre salumiere lui lo portava in giro spiegando le magie della Maddalena, non è un ristoratore tra tanti. È il padrone de «La scogliera» , un locale di Porto Massimo amatissimo dalla clientela più ricca della costa Smeralda. Lo chiamano il «Robin Hood del mestolo» dicendo che ruba ai ricchi presentandogli dei conti che sembrano eccessivi perfino a Flavio Briatore. Filippo Facci, un paio d’anni fa, arrivò a sbatterlo in prima pagina sul Giornale: aveva servito all’imprenditrice Luisa Todini, suo marito, la bambina e la tata «tre calici di vino, due bottiglie d’acqua, un antipasto per due, spaghetti all’aragosta per uno, branzino al sale per tre» . Conto finale: 850 euro. Nel dettaglio: «1 spaghetto aragosta 366 euro» . Lui ci ride su: «L’alta qualità si paga…» . Quelli della Cricca erano sempre a tavola da lui. Arrivavano con le Bmw e altri macchinoni extra lusso, mangiavano, bevevano. Lui, Cicerone, giura che ci ha rimesso: «Sono uno di quelli che sul G8 aveva scommesso. Gli avrò fatto una ventina di catering gratis. Una ventina. Ho preso anch’io il bidone. Gli curavo anche la mensa degli operai. Mille pasti al giorno. A 3 euro e mezzo a pasto. Gli dicevo: guarda che non ci sto dentro. E Mauro della Giovampaola, il coordinatore, mi diceva: “ Siamo all’osso”. Erano all’osso per me, e poi… Erano così tirchi che se non fosse scoppiata l’inchiesta non avrei mai immaginato che buttavano i soldi così… Li ho sempre difesi, ma hanno esagerato. Vengono fuori cose brutte. Brutte. Bertolaso no, lo difendo ancora. Ma gli altri…»
Per l’inaugurazione, che doveva far dimenticare la delusione inflitta all’arcipelago, gli ordinarono un buffet («prezzo stracciato: 90 mila euro» ) per tremila invitati. Tremila! Su un’isola che non arriva a 12.000 abitanti. Pierfranco Zanchetta, che dopo aver fatto l’assessore provinciale ha corso alle comunali contro la conferma del sindaco Angelo Comiti, che pure è del suo stesso partito, il Pd, spaccatissimo sull’ubriacatura del G8 ma più ancora sugli strascichi, rilegge ciò che aveva detto Guido Bertolaso in consiglio comunale: «Quella zona lì dell’Arsenale diventerà un grande Centro Nautico. Dovrebbe esserci un Cantiere Nautico con i controfiocchi, perché tutte le strutture e anche l’Area che chiamiamo dei Delegati sono progettate e realizzate non pensando che ci lavoreranno 2.500 ambasciatori da tutto il mondo, ma pensate perché, poi, ci saranno barche, rimessaggi, ci saranno cantieri, ci saranno officine…» . Sì, ciao. A girare per l’isola in quella manciata di chilometri quadrati in cui furono concentrati gli investimenti per il G8 mancato, viene il magone. Deserto l’ex ospedale militare ristrutturato come albergo pompandoci dentro, pare, 73 milioni di euro. Deserto il centro congressi avveniristicamente proiettato sull’acqua, costato 52 milioni pagati all’impresa edile di Diego Anemone e usato solo per il vertice con Zapatero passato alla storia (minore) perché il Cavaliere assicurò nella conferenza stampa di non aver mai pagato una donna. Deserto l’albergone rilevato con tutto l’ex Arsenale della Marina dalla società Mita Resort presieduta da Emma Marcegaglia. Deserta la darsena che, ospitando centinaia di posti barca da vendere a prezzi astronomici, dovrebbe rappresentare il vero grande business del business.
Il disinquinamento incompiuto di questo specchio di mare nel quale la Marina scaricò per anni tutto il pattume possibile e immaginabile, è il grande problema. Fin da quando Fabrizio Gatti raccolse su l’Espresso la testimonianza di un tecnico dell’impresa che doveva risanare l’area: «Più scavavi nel fondale, più trovavi fanghi contaminati. La benna tirava su melma densa come cioccolata e nera come pece. Erano sicuramente idrocarburi pesanti. Hanno deciso di lasciarli lì perché senza la costruzione di una diga ermetica, avrebbero inquinato l’arcipelago» . Sì, sospira il sindaco Angelo Comiti, «quando l’escavatore affondò i denti della benna ne tirò su una enorme cucchiaiata di idrocarburi. L’arsenale era una bomba ecologica. E’ la verità. Ma è falso che non abbiano fatto la bonifica. La bonifica c’è stata. Imponente. Lo sapevano tutti che restava da completare la parte finale di Cala Camicia. Mica doveva spiegarcelo Gatti…» . Per questo, dice, è convinto che l’affidamento per quarant’anni in cambio di 31 milioni di euro e un affitto di 60 mila l’anno «non è un regalo alla Marcegaglia. C’è stata una gara, regolare ha detto il Tar. Il dirottamento del G8 è stato un danno anche per lei. E poi, deve mettercene ancora tanti, di soldi… Anzi, capisco davanti a certe lentezze le sue perplessità» . Il guaio è, insiste, che «doveva esserci un’accelerazione finale dei lavori e invece lo spostamento all’Aquila causò una decelerazione. Partivano due navi al giorno per andare a buttar via quei sedimenti tossici. L’amianto, credo, a Torino. I materiali ferrosi a Livorno. Voglio dire che la bonifica è “quasi” finita. Ci vorranno ancora 6 milioni. Forse meno…» .
Sulla reale destinazione di tutti i fanghi portati via in realtà restano dei dubbi. Il 25 novembre i carabinieri, per dire, hanno sequestrato una discarica abusiva a Olbia: un ettaro pieno di eternit in un ex campo nomadi alla periferia della città. Campo che avrebbe dovuto essere a sua volta bonificato con l’occasione del G8. E chi hanno denunciato per l’immondezzaio tossico illegale? L’ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci e Raniero Fabrizi, tra i responsabili dell’organizzazione del G8 alla Maddalena. Come siano stati spesi tanti soldi è una cosa tutta da accertare. E non sarà facile. I lavori del G8, grazie alla qualifica di «Grande evento» , furono sottratti al controllo preventivo della Corte dei Conti. Di più, preso l’andazzo, i «maghi dell’emergenza» l’anno dopo il vertice cercarono di nascondere all’occhio dei magistrati contabili anche le regate della Louis Vuitton series. No, risposero i giudici: non si possono impiegare dipendenti e spendere soldi della Protezione civile per le barche a vela. Tanto più che oltre la metà dei quattrini stanziati per quelle regate (2 milioni 300 mila euro su 3 milioni 750 mila) furono direttamente versati dalla Protezione civile al Comitato organizzatore, una srl milanese controllata dalla società World sailing teams association che gestisce la Coppa America. Presidente: lo skipper Paul Cayard. Però un merito quella regata l’ha avuto. Fare scoprire appunto che quello specchio di mare non era stato ancora bonificato, nonostante i 31 milioni spesi per un’operazione alla quale aveva partecipato anche il cognato di Bertolaso, Francesco Piermarini. Benedetto come «un grande esperto» . Un fatto è sicuro: alla Maddalena non si è badato a spese. Stefano Boeri, l’architetto incaricato di gran parte delle opere ai tempi di Soru ma poi «di fatto escluso dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere» , ha scritto sul blog della rivista «Abitare» di «uno spreco inqualificabile di risorse» .
E non si riferiva solo al fatto che i tecnici dell’Unità di missione alloggiassero in ville affittate sulla costa e mangiassero alla Scogliera. I costi schizzarono da 200 a 327 milioni senza che alcuno facesse una piega. Un rincaro mostruoso. Dovuto, parole di Boeri, «alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57%di aumenti dei compensi, già stabiliti, per le difficoltà dovute all’urgenza, il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto dei tempi…» . Lo sapevano già prima, i furbetti, che c’era da lavorare in fretta e su un’isola. Eppure riuscirono a farsi riconoscere rincari del 57% perché occorreva fare in fretta e la Maddalena è un’isola. In parole povere, i disagi furono pagati due volte. Un meccanismo, secondo Boeri, «assolutamente senza senso» .
Lasciarono impronte digitali dappertutto, quei furbetti. Lo ricorda l’intercettazione fra l’architetto Marco Casamonti, che aveva progettato la trasformazione dell’ex ospedale in albergo, e Valerio Carducci, proprietario della Gia. Fi. costruzioni, l’impresa appaltatrice. Casamonti dice che ha la possibilità di far lievitare il conto come panna montata: «Quella è una cosa che mi curo io. Guarda, secondo me, per fare quello che ci vuole… altri 60 milioni di lavori» . Millantava? Qualche numero balla. Ma Fabrizio Gatti, con l’aiuto di chi si oppose al progetto, su quell’ex ospedale ha fatto due conti: dato che le stanze sono 101, ogni stanza sarebbe costata 722 mila euro. A sentire le intercettazioni, c’era già chi sapeva come andava a finire. Il 28 dicembre 2008 Vincenzo Di Nardo, amministratore della Btp (la ditta di quel Riccardo Fusi amico di Denis Verdini che avrebbe lavorato anche all’Aquila) si sfoga: «Sono banditi… E’ gente… Prima o poi si leggerà sui giornali che li hanno cuccati con qualche tangente in mano… Dai! Questi poi sono violenti e… Io ho visto la squadra in azione… Non la conoscevo questa del Balducci… E’ una task force proprio insieme unita e compatta… Sono dei bulldozer e il Carducci è uno di quelli blindati dentro questa logica qui del Balducci, che è il vero regista».
L’ex governatore Renato Soru ricorda bene come tutto ebbe inizio: «La Protezione civile fece base nel vecchio quartier generale degli americani. Credo che solo l’acquartieramento costò qualcosa come 10 milioni di euro. Arrivarono perfino con un ospedale da campo, mai utilizzato e poi trasferito all’Aquila» . Era stato lui a spingere con Prodi perché il G8 si tenesse alla Maddalena. Le basi militari stavano chiudendo e quella era un’occasione storica per risanare un pezzo dell’isola. Decenni di lavori e stazionamento delle navi avevano compromesso i fondali. Pieni zeppi di detriti, e soprattutto intrisi di oli che erano penetrati per metri in profondità. Subentrato a Prodi, ricorda il sindaco, il Cavaliere si mostrò subito poco entusiasta: «Se le idee non sono sue…» . Fatto sta che il 23 aprile 2009, il nuovo governatore Ugo Cappellacci apprese dalla tivù che la Sardegna aveva perso il G8.
«La mia impressione? Che avessero già spremuto il limone fino in fondo. E si spostavano da un’altra parte», ipotizza Soru. A Caprera, Garibaldi riposa probabilmente inquieto. Con tutti i soldi che hanno speso di là del braccio di mare per fare in fretta una cosa che poi non hanno fatto, non hanno trovato il tempo e il denaro per fare entro il 2010, centocinquantenario della spedizione dei Mille, il museo nuovo che, ospitato nel forte Arbutici, dovrebbe accogliere la grande collezione di Mario Birardi, già sindaco della Maddalena e deputato del Pci e appassionato cultore dell’Eroe dei due mondi. Mai, forse, avrebbe immaginato che l’esasperazione affaristica di una certa Italia avrebbe insultato il suo bellissimo e civile arcipelago dove fin dal 1811 un certo Alessandro Turri sbarcò da Genova con un documento intitolato «Memoria circa un progetto di indipendenza italiana» Fosse vivo, scriverebbe forse parole ancora più addolorate di quelle incise nella prefazione alle memorie: «Sono amareggiato a veder tanti malanni e tante corruzioni in questo sedicente secolo civile…». Raccontano che chiamasse i somari coi nomi di chi disprezzava. Uno don Chico (Francesco Giuseppe), un altro Napoleone III, un altro ancora Pio IX. Tornasse in vita, saprebbe lui come chiamarli i somari di oggi…

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