Inizio questo articolo con un´ipotesi. So bene che l´ipotesi configura una realtà virtuale che spesso non coincide con quella reale ma ci aiuta spesso a capire meglio quello che è accaduto. Facciamo dunque l´ipotesi che il 14 dicembre scorso il governo fosse stato battuto, sia pure per un solo voto, e che Berlusconi si fosse dimesso chiedendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere.
Il Presidente – l´ha detto pochi giorni dopo parlando alle Alte Cariche dello Stato – è in linea di principio contrario allo scioglimento anticipato di una legislatura; perciò, prima di addivenire alla richiesta del premier dimissionario, avrebbe verificato l´esistenza di una maggioranza alternativa.
Quella maggioranza – contraria allo scioglimento anticipato ma tuttavia incapace di esprimere un governo coeso e di indicarne il premier – c´era come tuttora presumibilmente c´è. Che cosa avrebbe fatto Giorgio Napolitano di fronte ad un Parlamento che non vuole essere mandato a casa ma non riesce a indicare un nuovo premier?
Forse avrebbe risolto il problema affidando l´incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale, in grado di portare avanti la legislatura rafforzando e restaurando le istituzioni e riconciliando con la politica quella moltitudine di cittadini che è profondamente delusa dall´imbarbarimento istituzionale in atto.
Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d´Italia, dal presidente del Consiglio di Stato, dal presidente della Corte Costituzionale, da qualche «emerito» di quella medesima istituzione. Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l´incarico ad un «eminente» della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti.
Un governo formato con questi criteri avrebbe probabilmente riscosso la fiducia del Parlamento anche perché, al di là delle appartenenze di partito, un´elevata percentuale di deputati e di senatori non ha nessuna voglia di ritornare ai propri lavori domestici e – in aggiunta – un´elevata percentuale di cittadini elettori non ha alcun desiderio di tornare anticipatamente al voto. Un´ultima considerazione: un voto fatto in questa fase e con la legge elettorale vigente darebbe probabilmente una maggioranza di un tipo alla Camera e una maggioranza di una diversa tipologia politica al Senato. Si avrebbe perciò una nuova legislatura con due Camere diversamente orientate tra di loro, e quindi con una situazione travagliata come e più di quella attuale.
Aggiungo dal canto mio che una campagna elettorale nella presente congiuntura economica non farebbe che esasperare lo scontro sociale già largamente in atto e rappresenterebbe una ghiotta occasione per incoraggiare la speculazione ad attaccare il nostro debito sovrano sui mercati finanziari. Questa del resto è anche l´opinione manifestata pubblicamente e più volte dal Capo dello Stato.
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Tutto il ragionamento fin qui svolto si basa su ipotesi logiche che non prevedono alcuna forzatura costituzionale. Infatti, per quanto riguarda le prerogative del Quirinale, la Corte è chiarissima in proposito: il Capo dello Stato, sentiti i presidenti delle Camere e i gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. La medesima procedura è prevista per lo scioglimento delle Camere.
È perciò probabile che le cose sarebbero andate così, con largo vantaggio per le istituzioni, per i cittadini e quindi per il paese. Ma le ipotesi non sempre si verificano. Nel nostro caso, il 14 dicembre il premier ha avuto un´ampia maggioranza al Senato e la fiducia della Camera per tre voti di scarto. Le modalità di acquisizione di quei tre voti sono note ma ufficialmente non contestabili, salvo improbabili esiti dell´inchiesta giudiziaria in corso.
Il governo è quindi in carica nella piena legalità costituzionale e può benissimo proporsi di andare avanti fino al termine naturale della legislatura, varando un programma di riforme sociali, economiche e istituzionali. Non l´ha fatto prima, quando disponeva di una vasta maggioranza in entrambe le Camere. Potrà farlo ora con tre voti o magari con dieci di sostegno?
Berlusconi e soprattutto Bossi si sono dati la metà di gennaio come termine ultimo. Se a quella data la maggioranza si sarà rafforzata quantitativamente e politicamente, con un accordo con Casini, andrà avanti. In caso contrario Berlusconi andrà al Quirinale a dimettersi chiedendo le elezioni anticipate.
Che cosa farà a quel punto il Capo dello Stato?
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I presupposti della sua azione non sono diversi da quelli precedenti al 14 dicembre scorso. Dovrà perciò verificare se in Parlamento emergerà una maggioranza contraria allo scioglimento oppure no.
In quest´ultimo caso la continuità da lui auspicata sarà interrotta e i pericoli per la stabilità economica si riproporranno tali e quali. Avremo dunque perso inutilmente un mese e ci ritroveremo nella stessa situazione dopo aver offerto purtroppo ai cittadini e alla pubblica opinione internazionale lo spettacolo del peggior trasformismo che si sia mai verificato in un paese democraticamente maturo dell´Occidente.
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Avremo dunque la risposta tra tre settimane e ci sarà anche per quella data la sentenza della Corte sul «legittimo impedimento», che non è un elemento indifferente rispetto alle varie ipotesi sopra indicate.
Mi domando, e molti si domandano con me, quale sarà l´atteggiamento del centrosinistra nell´ipotesi di elezioni anticipate, oppure in quella di un accordo Berlusconi-Casini-Fini. Vediamo.
Accordo di Casini-Fini con Berlusconi: la legislatura procede fino al 2013 e tenta di fare le riforme tante volte promesse e mai effettuate: nuova legge elettorale, Senato federale, diminuzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale, riforma della giustizia per rendere il processo civile e quello penali più rapidi e il ruolo del Pubblico ministero più simile a quello di un avvocato di accusa. Infine, riforma fiscale che diminuisca il peso delle imposte sul reddito e introduca un prelievo sul patrimonio al di sopra di una certa soglia.
Il gruppo Casini-Fini cercherà di modellare quelle riforme nella prospettiva d´una nuova destra, «repubblicana», che si troverà di volta in volta in contrasto con il populismo berlusconiano o con la Lega o con tutti e due. Se Casini-Fini si appiattissero sui desideri del premier, non si capirebbe per quale motivo sia stata montata questa cagnara da quattro mesi a questa parte.
Sarà dunque un processo molto travagliato, quello sulle riforme, nel corso del quale il Partito democratico potrà essere determinante per far pendere la bilancia dall´uno o dall´altro lato. Ma proprio per questo travaglio è molto probabile che Berlusconi e Bossi manderanno al più presto tutto all´aria.
Se invece il percorso delle riforme proseguisse e con esso la legislatura, verrà anche il momento della scadenza del mandato di Bersani da segretario del Pd e ci sarà un nuovo congresso e nuove primarie di partito. Bersani presumibilmente si ricandiderà ed avrà quasi certamente Veltroni come concorrente. Di Pietro e Vendola saranno fuori da questa tenzone che riguarda soltanto il Pd. Se invece a gennaio Berlusconi e Bossi, non riuscendo a rafforzare la maggioranza, decideranno per la crisi e se Napolitano dovesse accettare lo scioglimento delle Camere, si verificherebbe l´ipotesi peggiore per il Pd, che si troverebbe alle prese con il Terzo Polo sulla sua destra e con Vendola e Di Pietro sulla sua sinistra.
Andare alle elezioni da solo significherà per il Pd esporsi dunque a perder voti sull´uno e sull´altro versante. Puntare su un´alleanza con Casini significherà un salasso a sinistra; puntare sull´alleanza con Vendola significherà affrontare le primarie di coalizione che vedranno molteplici candidati ai nastri di partenza. Non è immaginario pensare che oltre a Bersani e Vendola ci saranno anche Veltroni, probabilmente Bindi e D´Alema, per non parlare di Di Pietro. Una situazione che rischia di polverizzare l´intera sinistra.
Questo è il panorama che occorre evitare a tutti i costi, sperando nella saggezza e nell´umiltà dei vari interlocutori e in un accordo di tutte le opposizioni.
Se debbo dire la mia, questa dell´accordo generale mi sembra un´ipotesi cosiddetta di terzo grado, teoricamente la sola valida, praticamente impossibile da realizzare.
Come si vede, quei tre voti del 14 dicembre rischiano di avere come risultato la scomparsa della sinistra italiana e di consegnare il paese per altri dieci anni al berlusconismo populista, autoritario e leghista. Con la speculazione che spennerà il nostro debito sovrano a suo piacimento.
Chi volesse trovare un solo colpevole non riuscirebbe, lo sono tutti, nessuno escluso.
La Repubblica 27.12.10
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