Bisogna dare atto al professore-senatore Quagliariello (e ringraziare Il Fatto per aver promosso l’iniziativa) di aver fatto ciò che il ministro Gelmini non ha fatto per due anni: confrontarsi con gli studenti e i ricercatori. Per il resto, però, non è andato oltre una serie di luoghi comuni e slogan governativi sull’università. Insomma come accademico, ha dimostrato ciò che vent’anni fa diceva Sabino Cassese: “Molti professori non scriverebbero una riga nelle loro discipline senza aver fatto mille ricerche di archivio, ma, per il solo fatto di essere all’università, ritengono di esprimersi da esperti sull’università stessa”. Questo limite si aggrava combinandosi con la retorica e le parole d’ordine politiche che poco hanno a che fare con un discorso serio e fondato sull’università. Insomma, il professore-senatore non sa o non dice una serie di cose che dovrebbe invece sapere e dire.
Uno degli argomenti principali cavalcati tanto dalla Gelmini quanto da Quagliariello è quello secondo cui l’università italiana versa in un pessimo stato e ciò è certificato dai ranking internazionali : nessuna università italiana è tra le prime 200. Questo basta e avanza per giustificare la riforma “epocale”. Tutto chiaro allora? Per niente, siamo in piena mistificazione. Nel 2008 il Times Higher Education Supplement, accanto ai ranking per singola istituzione, ha fatto anche quelli dei sistemi di istruzione superiore. Sorpresa! L’Italia si piazza all’ottavo posto nel mondo e primo in Europa per la probabilità che uno studente ha di ricevere una buona istruzione e al dodicesimo posto nel mondo in termini di qualità complessiva del sistema. Il professore ignora, o vuol ignorare, questo dato proveniente da una delle fonti che cita per screditare l’università. Ma mica finisce qui. Il nostro accademico-senatore non sa, o non vuol sapere, che è appena uscito un rapporto UNESCO, secondo cui il sistema americano, per quanto riguarda la didattica, è uno dei peggiori al mondo, sebbene le sue istituzioni di vertice egemonizzino i ranking internazionali. Perché? Perché ha ottimi e ben finanziati centri di ricerca, ma per il resto e nel complesso non è che se la sfanghi bene. C’è un’altra mistificazione presente nel Quagliariello-pensiero e nel non-pensiero gelminiano: la ricerca italiana se non è pessima poco ci manca, gli accademici italiani passano il tempo a scrivere di cose eccentriche e irrilevanti, si produce poco e con scarsissima rilevanza internazionale. Una recente ricerca del CNRS francese ci dice tutt’altro. La ricerca italiana si piazza all’ottavo posto nel mondo e al quarto in Europa per numero di pubblicazioni; è al settimo posto nel mondo per numero di citazioni; le eccellenze sono nei campi della medicina, matematica, fisica, biologia molecolare e genetica, scienze spaziali, neuroscienze e scienze del comportamento; i giovani ricercatori italiani si piazzano al secondo posto in termini di successo nell’ottenimento dei finanziamenti del Consiglio Europeo della Ricerca; delle 45.000 pubblicazioni prodotte nel 2007 il 40% sono frutto di collaborazioni internazionali. Va sottolineato che i Paesi che ci precedono sono quelli in cui il finanziamento dell’università e della ricerca è nettamente più alto del nostro. E a proposito di finanziamento, il professore-senatore non dice che l’Italia si trova al trentaseiesimo posto dei paesi OCSE relativamente alla spesa per l’istruzione universitaria sul PIL, al ventiseiesimo posto per quanto riguarda il rapporto docenti-studenti e tra gli ultimi relativamente al numero di studenti che beneficiano di sussidi e borse di studio. Infine, ma ci sarebbe ancora molto altro da dire, il professore-senatore dice che “L’Inghilterra era uscita da qualsiasi classifica di merito e grazie a quei tagli [epoca Thatcher, nda] ha ripreso a scalare le classifiche mondiali”. A parte il fatto che le “classifiche di merito” esistono dal 2003 e che al tempo dei tagli non ve ne era traccia, quello che il professore non sa è che negli anni ’90 la politica universitaria britannica si accorge del disastro prodotto da quei tagli in termini di qualità della didattica e della ricerca. A partire dalla metà degli anni ’90 il sistema viene fortemente finanziato e questa politica è continuata fino a quest’anno (governo Cameron). Giusto per dare l’idea, tra il 2000 e il 2007 la spesa pubblica in istruzione superiore britannica è cresciuta del 50% contro il nostro 12% dello stesso periodo (dati OCSE). Se la Gran Bretagna oggi è in alto nelle classifiche è perché il suo sistema è stato ben finanziato, non de-finanziato. E lo stesso si deve dire della Germania e la Francia che hanno immesso miliardi extra per finanziare le rispettive politiche per l’eccellenza dell’istruzione superiore.
Il Fatto Quotidiano 24.12.10