Obiettivi e parole d’ordine condivise. L’11 dicembre, in piazza San Giovanni, il Partito democratico ha dato una grande prova di determinazione e, soprattutto, di unità. Sono bastate poche ore, però, perché dall’interno tornassero a levarsi molte voci tra di loro contrapposte. Veltroni, ad esempio, è tornato a reclamare un cambiamento di linea politica. Latorre ad auspicare l’ingresso di Vendola nel Pd. Altri hanno espresso critiche e condivisioni alla linea del partito. A scanso di equivoci ribadisco che tutto questo è assolutamente lecito. Ma l’impressione che si ricava è che, ancora una volta, si sia trattato della rimessa in discussione della solita unità di facciata, buona soltanto per una importante manifestazione del Pd.
Questo andazzo è pericoloso. Per il partito e, in prospettiva, per il paese. Che, oltre alla crisi economica e occupazionale, deve affrontare una crisi politica e di leadership sempre più grave e dagli sbocchi imprevedibili.
Non si tratta, come ho già detto, di imporre il silenzio.
In un partito davvero democratico la libertà di espressione e di critica può essere praticata da chiunque e in qualunque momento. Il problema, però, è quello di affrontare questi argomenti preferibilmente nelle sedi appropriate. Per il Pd l’occasione per una riflessione profonda ci sarà alla direzione nazionale di gennaio.
Bersani ha ragione quando indica al Pd la necessità di avanzare una proposta positiva per avviare una fase nuova nel paese. Dopo quanto è accaduto il 14 dicembre – la sanzione della fine dell’attuale maggioranza di centrodestra – non possiamo sottrarci a questo compito.
Abbiamo l’obbligo di indicare una strada per garantire crescita e lavoro e per riformare la repubblica. Non possiamo consentire a questo moncherino di maggioranza di continuare a galleggiare. Dobbiamo portare l’Italia fuori dalle secche nelle quali il berlusconismo l’ha trascinata.
In quest’ottica si è proposta un’apertura, non esclusiva, nei confronti del Terzo polo.
Franceschini, in modo ancora più esplicito, alludendo a Fini e Casini, ha parlato di necessità di compiere un pezzo di strada anche con persone e con forze politiche provenienti da storie diverse. La tesi è chiara: siamo in una fase di emergenza democratica acuta e sono necessarie risposte di emergenza. A fronte di questa discussione sulle alleanze io credo, invece,che sia nostro dovere avanzare prima di tutto una proposta politica che parta dai nostri contenuti e dalla nostra identità.
È su di essi e con essi che dobbiamo confrontarci con gli altri partiti di opposizione per un progetto di alleanze. È questa la priorità. La discussione non deve avvenire partendo dalle formule. Ma i contenuti si possono definire solo avendo ben chiaro chi siamo e cosa vogliamo. Devono basarsi su uno sforzo condiviso di compromesso tra le varie anime del Pd che ci consenta di avere una visione politica, alternativa all’attuale maggioranza, che sia credibile per il paese.
Questo è il punto. Abbiamo compiuto un grave errore nel nostro passato. Nella costruzione del Pd abbiamo annullato i riferimenti ai valori delle diverse identità costituenti nella convinzione che rappresentassero un ostacolo all’unità del nuovo partito. Questa rimozione ha finito con l’autorizzare ciascun esponente democratico a esprimere le proprie opinioni – talvolta senza senso del limite – come fossero imprescindibili per l’azione politica, dimenticando la necessità di trovare sempre e comunque una sintesi. È ora di voltare pagina.
Non si tratta di ricostruire il Pci o i Ds, la Dc o la Margherita. Non c’è alcun automatismo in tal senso (come taluni, strumentalmente, pretenderebbero).
Identità significa riscoprire i valori fondanti delle nostre storie diverse per proiettarli, oltre i vecchi recinti ideali, in una sintesi nuova. Non si tratta di un discorso astratto. Il momento che stiamo vivendo richiede scelte tempestive e concrete. Definire la nostra identità significa dotarci degli strumenti necessari per operare queste scelte.
I temi sono noti. Dobbiamo affrontare questioni urgenti come quelle dell’occupazione, dei diritti, del lavoro, del sistema fiscale, della sostenibilità del welfare.
Servono, su queste (e altre) materie provvedimenti legislativi riformatori. Ma ancora non possediamo la bussola necessaria per orientare la nostra direzione di marcia. Parliamo di economia. Siamo con Keynes o con Friedman e la sua scuola di Chicago? Quale ruolo attribuiamo alla presenza dello stato nell’economia? Parliamo di relazioni industriali e di nuovo patto sociale.
Siamo con Colin Crouch, il teorico della concertazione, o con Mancur Olson, il suo avversario? Se dobbiamo superare il conflitto tra capitale e lavoro, qual è la nostra idea per una sua ricomposizione ? In una parola, quali sono le nostre proposte? Massimo D’Alema ha sostenuto che, da sola, la socialdemocrazia non basta più per affrontare le sfide dell’oggi. Se vuole avere un futuro, deve rassegnarsi ad essere solo una delle componenti delle coalizioni progressiste e, soprattutto, deve trovare strade nuove. Concordo. Ma se questa ricerca vale per qualsiasi identità storica, a maggior ragione deve valere per un partito che assomma in sé valori e tradizioni diverse.
Abbiamo già perso troppo tempo. Dobbiamo iniziare a lavorare subito in questa direzione. Con la più ampia disponibilità al confronto e con la più ferma determinazione di giungere a una sintesi che faccia da guida riconosciuta alla nostra azione futura, senza rimuovere le nostre identità di partenza.
da Europa quotidiano 24.12.10
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“Bersani, il fratello maggiore”, di Mario Lavia
Il numero uno dei democrat ha bisogno di tempo, a gennaio proporrà un nuovo programma
Senza volerlo, ha suonato un copione “anglosassone”, quello del premier ombra che tiene la sua conferenza stampa di fine anno a poche ore da quella, fluviale, del premier in carica. Bersani ieri ha fatto il punto con i giornalisti al termine di un anno contraddittorio, di gran lavoro, fra grandi problemi esterni e interni a conclusione del quale si può dire che, insomma, il Pd c’è ed è un po’ più unito di prima, a furia di aggiustamenti successivi che pur non avendo sortito l’effetto principale – la caduta del governo – consentono tuttavia al segretario di proseguire la sua navigazione.
Dice Bersani del suo partito che è «il fratello maggiore di un arco di forza che vuole superare il berlusconismo »: ed è una metafora non offensiva per alcuno, non è sfoggio di arroganza o di superiorità intellettuale, semmai è l’assunzione di una responsabilità gigantesca, appunto, il «superamento del berlusconismo»: impresa finora mai riuscita a nessuno e a quanto sembra ancora lontana dal realizzarsi.
Sì, Bersani naviga – c’è chi lamenta: troppo tranquillamente – con l’unica bussola a disposizione, quella della ricerca faticosa di un’intesa «larga », scontando anche qualche elemento di confusione di cui è probabilmente consapevole e a cui pone rimedio marcando un’accentuazione nuova della soggettività del Pd e del suo programma (che verrà definito a partire dalla assemblea nazionale di Napoli di fine gennaio), con l’ambizione – addirittura – di costruire una «agenda del decennio» che sta per aprirsi da sottoporre erga omnes.
Ecco perché al centro dei suoi discorsi il segretario del Pd mette al centro «l’Italia», i programmi, le cose da fare, i problemi reali, e non «i tatticismi », meno che mai ciò che allude alla «personalizzazione ». Un’impostazione d’antan? Può darsi. Ma Bersani mette nel conto «i difettucci» che ci sono in un partito siffatto, certo però che alla fine la storia darà ragione lui. Il problema però è appurare se tutto ciò che rimanda al berlusconismo (e anche ai suoi «scimmiottamenti»: con chi ce l’aveva? Con Vendola e basta?) è in via di estinzione oppure no: perché se ci siamo ancora immersi dentro, il Pd faticherà il doppio, incerto fra sviluppo del bipolarimo o suo superamento. E però Bersani ha più di un punto di forza.
Che non è solo e tanto quello che ha sottolineato Miguel Gotor sul Sole 24Ore, e cioè la capacità personale di reagire come «un lottatore di sumo» quanto quella (cui lui stesso ha accennato ieri) che «non esistono alternative» alla sua linea generale. Magari il “Lingotto 2” del 22 gennaio cambierà i termini del dibattito interno, ma per il momento una posizione diversa da quella indicata dal segretario non si scorge con chiarezza, specie dopo che il numero uno del Nazareno ha relativizzato l’idea del “cartello” che pure era alla base della sua piattaforma congressuale (infatti non parla più di Nuovo Ulivo).
Non solo. C’è un’altra cosa che unisce il gruppo dirigente e che ovviamente non finisce così sui taccuini e sulle tv: la convinzione che è necessario, per il Pd – qualunque sia la sua linea – guadagnare tempo per assestare la posizione, migliorare un’organizzazione ancora deficitaria, soprattutto mettere Vendola su una strada molto più lunga e faticosa, lavorare il Terzo polo ai fianchi per portarlo “di qua”. Parlare in questo senso di un tacito ma grande accordo fra i capi del Pd uniti nel non volere le urne non fa torto alla verità. E d’altronde Bersani è per indole un leader che predilige il tempo lungo pur sapendo che è nel tempo lungo che le incognite crescono.
da Europa Quotidiano 24.12.10