Il Senato della Repubblica trasformato in votificio. Il dibattito, fuori e dentro il Parlamento, macchiato da una sequela di luoghi comuni, forzature, bugie. Gli studenti e i ricercatori? Facinorosi o, al massimo, ingenui che protestano contro i propri interessi. L’opposizione? Disfattista e gemellata con i baroni. I docenti che dissentono? Oligarchici e privilegiati. Questi giorni sono la migliore sintesi del confronto pubblico sul ddl Gelmini. L’occasione «di riflettere sul valore da attribuire alla scienza e alla cultura, e di confrontare su questo tema i diversi ideali delle forze politiche e sociali » – così Matteucci definiva il dibattito sull’università nel 1970, in un articolo ora ripubblicato su Il Mulino – è andata persa: poca attenzione ai contenuti, chiusura faziosa da parte di un governo arrogante. Signore e signori, la riforma è servita, prendere o lasciare: studenti e ricercatori, partiti e Parlamento, siete pregati di ripresentarvi in sede di adozione dei decreti attuativi (che in effetti sono oltre 50!), afferma il ministro. “Merito”, “talenti”, “valutazione” sono parole ormai prive di senso, foglie di fico per coprire un disegno di disinvestimento e dequalificazione dell’università. Ma questa legge è un manuale di antiriformismo, più che per questo, per i contenuti: peggiora la qualità del sistema, non riforma la governance degli atenei,ma ne accentua i difetti, non introduce meritocrazia per i docenti, riduce le opportunità per gli studenti. Non fa che aggravare le emergenze del Paese: la crescita e la competitività, l’equità e la mobilità sociale e generazionale. Gli studenti e i ricercatori lo hanno capito benissimo. I giovani vivono sulla loro pelle l’ingiustizia di essere considerati “ragazzi” in eterno, e oggi chi si trincera dietro lo slogan “non fatevi strumentalizzare” e il lessico degli anni di piombo offende la loro intelligenza. Il governo li irride, e solo il presidente Napolitano ha offerto loro uno spazio di dialogo con le istituzioni. I giovani sanno benissimo cosa sta accadendo. Sanno che nel 2008, quando già eravamo fanalino di coda Ue, il governo ha ridotto del 20% (oltre un miliardo di euro) gli investimenti in università, per abolire l’Ici per i più abbienti e per Alitalia (costo: 6 miliardi). Sanno che gli altri, al contrario, investivano: in Germania 8 miliardi, in Francia 5 miliardi per i poli d’eccellenza più 19 nel maxi-prestito; in Gran Bretagna + 4% all’anno, fino alla stretta di Cameron. Sanno che il piano per l’occupabilità dei giovani del governo afferma che «l’iscrizione di massa dei diplomati alla università non risponde alle reali esigenze del mondo del lavoro», mentre la verità è abbiamo pochi laureati e dovremmo raddoppiarli nel 2020. Sanno che in tre anni si riducono del90%le risorse per il diritto allo studio, e che un’università sempre più costosa diventa inaccessibile: così le immatricolazioni diminuiscono (-14%in sei anni) e l’università è sempre più un fattore di immobilità sociale (da noi, tra i laureati, solo il10%sono figli di non diplomati, in Gran Bretagna il 40%), con un’enorme perdita di talenti. Diversi commentatori, basandosi su una presunta assenza di alternative, sostengono che “una riforma sbagliata è meglio di niente”: un messaggio simile al “prendere o lasciare” del governo. Un atteggiamento profondamente sbagliato, specie per chi, come noi, chiede ai cittadini il consenso su proposte che facciano ripartire il Paese. Partendo da un’università che sia il cuore della ricerca e dell’innovazione, strumento per la crescita dell’economia, la diffusione della cultura, l’equità e la mobilità sociale. Le idee del Pd disegnano un’università fondata su regole, autonomia e valutazione, sul supporto agli studenti nell’orientamento e nei servizi; sulla selezione di docenti di qualità, premiando il merito e aprendo spazi di ricambio generazionale, con incentivi che spingano i più bravi – e non solo i più “fortunati” – a stare all’università. Proposte incisive e innovative che continueremo a migliorare. Assumiamo fin d’ora alcuni impegni. A partire da quello di cambiare, una volta al governo, la legge, per dare all’università italiana una riforma vera, un pacchetto di norme sobrio che disboschi il ginepraio creato da questo mostro normativo; “tutto tranne la conoscenza”: i prossimi saranno anni di rigore nella finanza pubblica, ma i risparmi e le riforme fiscali dovranno rifinanziare le politiche per l’istruzione e la ricerca. L’iter del ddl Gelmini ci insegna che le riforme non si possono fare contro tutti. Per ripartire, il Pd organizzerà, a febbraio, due appuntamenti: una “giornata dell’università”, per dialogare con quanti credono nel futuro dell’università, e una giornata dell’ “università per l’Italia”, perché dal luogo di massima espressione della cultura e della civiltà possa attivarsi un motore di progetti per la rinascita del Paese.
*Responsabile università e ricerca del Partito Democratico
L’Unità 23.12.10
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