cultura

"Matrimonio al museo per salvare Picasso", di Salvatore Settis

Il Louvre ha lanciato con immediato successo un appello per la raccolta di un milione di euro, la cifra che mancava per acquistare Le Tre Grazie di Lucas Cranach. Che cosa ci insegna questa storia sullo stato di salute e sul destino dei musei, in generale e in Italia? Raccogliere donazioni dai privati è solo un capitolo di quella “arte di arrangiarsi”, come esporre automobili a ridosso dell´Ara Pacis? È importante distinguere, è importante capire. Accettare donazioni (in denaro o in opere d´arte) è una tradizione che ha radici lontane e gloriose, specialmente nei musei britannici e americani, e comporta un accresciuto senso di consapevolezza e di “proprietà” del patrimonio culturale pubblico da parte dei cittadini. Chi dona rinunzia a qualcosa di suo (un quadro, un euro) in nome del bene pubblico; il museo che lancia un appello come quello non conquista solo un quadro in più, ma anche la partecipazione dei cittadini alla sua vita, al suo futuro. È un meccanismo, questo, che funziona solo in presenza di evidenti sgravii fiscali, di là da venire nel nostro Paese. Nulla a che vedere con l´uso improprio dei musei come cornice per operazioni pubblicitarie, cene aziendali, matrimoni kitsch.
Ma perché tanti musei, invece, si rincorrono nella svendita di se stessi per fini contrari alla propria “ragione sociale”? Paul Valéry disse che «la nostra eredità è schiacciante. Il museo esercita un´attrattiva costante su tutto quel che facciamo: dovremmo dunque soccombere? E come reagire? Diventando superficiali». All´occhio acuto di Valéry era visibile già allora la crisi latente nell´istituzione-museo. Separando dal tessuto della città quanto è degno di esser “museificato”, il museo lo innalza su un piedistallo artificiale, ma lo chiude in uno spazio specializzato, diverso (salvo che per gli addetti ai lavori) da quello d´ogni giorno. Quadri che l´occhio incontrava nelle chiese o nei palazzi, statue che ornavano piazze o tombe sono ora mute presenze dei musei: per vederli, dobbiamo sceglierlo, anzi pagare il biglietto. La viva funzione delle immagini si è così diluita proprio mentre appariva consacrata: si sono create professioni e regole della tutela, ma il patrimonio artistico ha cominciato ad apparire un peso, tanto più grande quanto più progrediscono le tecniche (e i costi) della conservazione. Qui, in questo nodo, è il divorzio tra chi intende il museo come luogo massimo dell´identità e della trasmissione culturale da una generazione all´altra, e chi lo vede come un fastidioso salvadanaio pieno di tesori, ma perpetuamente in passivo. Qui è la radice della perversa biforcazione fra “tutela” e “valorizzazione” che si è insediata nel gergo italiano, qui l´idea che il patrimonio artistico serve solo a far cassa, che i quadri in deposito sarebbe meglio venderli, che i piccoli musei vanno chiusi, e che in ogni caso non merita nulla chi non sa far quadrare il bilancio; e siccome di solito storici dell´arte e archeologi non ci riescono, meglio far ricorso a manager, anche se esperti in tutt´altro. Qui è la spinta ad “arrangiarsi”, mettendo all´asta gli spazi del museo per eventi mondani e commerciali.
Ma che fare, per non “essere superficiali” davanti a uno schiacciante patrimonio artistico? Proviamo a rovesciare la frittata: anziché ripetere la litania sulla crisi economica che obbliga a tagliare le risorse, chiediamoci perché per troppe altre cose le risorse si trovano, come i 750 milioni di “arretrati” per l´Alto Adige, trovati in un fiato nel Consiglio dei ministri di venerdì dopo il contributo dei deputati Svp alla fiducia al governo. Ricordiamoci che i musei sono in passivo in tutto il mondo (come le scuole), e che la loro funzione pubblica esige, proprio come per la scuola, un diretto impegno dello Stato (che negli Stati Uniti si esercita anche mediante enormi benefici fiscali per i donatori). Proviamo a rilanciare la funzione del museo, facciamolo conversare con la città come essenziale nodo urbano che s´innesti sul tessuto civile e sociale. Facciamolo diventare, non con cene aziendali ma nemmeno con mostre pretestuose (ce ne sono già troppe), la proiezione della città, la distillazione e la vetrina della sedimentazione storica e della memoria collettiva, e non un hortus conclusus che facilmente si trasforma in ghetto, “cimitero delle arti”, e subito dopo in deposito bancario di valori (in senso pecuniario) disponibili alla vendita, a cessioni più o meno dichiarate o mascherate. Richiamiamo noi stessi, e chi ci governa, al senso di responsabilità: parlare oggi dei musei non riguarda il passato, ma il futuro. Non possiamo permetterci di “essere superficiali”.

La Repubblica 21.12.10