Mercoledì il Parlamento andrà alla votazione finale sulla legge universitaria. A pochi giorni dal 14 dicembre migliaia di persone di nuovo protesteranno. C’è di che preoccuparsi. Per quel giorno e, ben più in generale, per il clima nel Paese. In particolar modo, per quello tra generazioni che, come per tanti insegnanti, è stata la mia ragione di lavoro e di riflessione per molti anni. Non ho voglia di fare appelli né sermoni o rimbrotti. Perché penso che questo sia il tempo di ragionare, con passione civile. Nel farlo non penso affatto che ci si debba rivolgere solo ai giovani. Penso, invece, che ci si debba rivolgere a tutti e, dunque, a se stessi e agli altri. A tutti i cittadini. Che abbiano quindici, diciotto, venticinque o trenta anni o quaranta o sessanta o ottanta. In questa riflessione comune si deve partire – in primo luogo – dal riconoscere una cosa del tutto evidente, che ha cambiato il paesaggio sociale, politico e umano nel quale siamo chiamati a vivere. E che è questa: noi persone «più grandi» stiamo, oggi, consegnando a chi è nato dopo di noi un’Italia peggiore di quella che abbiamo ricevuto in consegna dai nostri genitori. Peggiore per condizioni materiali e per quantità e qualità delle concrete possibilità di lavoro, di reddito, di studio. Peggiore in termini di accesso ai crediti materiali e spirituali in vista dello sviluppo economico e civile e dell’imprenditorialità umana. Peggiore per quanto riguarda il riconoscimento del merito e la possibilità di fare parte della ricerca delle soluzioni ai problemi della vita comune. Peggiore per presidio delle procedure e delle regole della civile convivenza e per la tenuta di ritualità e occasioni comunitarie. Peggiore in termini di protezione di fronte all’ineguaglianza e alle avversità della vita. Peggiore riguardo al fare fronte alle normali fragilità, difficoltà personali e alla possibilità di commettere errori. Peggiore per estensione – reale e percepita – degli orizzonti di speranza. È nel bel mezzo di questo paesaggio – impoverito, depresso, che crea ansia e rancori quotidiani, paure e rabbia diffuse e persistenti – che questa destra si è rivolta ai giovani chiedendo loro di approvare le nuove norme che li riguardavano e omettendo, tuttavia, di fornire occasioni per confrontarsi nel merito. «Noi facciamo le leggi secondo quanto crediamo perché abbiamo vinto le elezioni. Ma voi leggetele bene e convincetevene. Se non lo fate, vi state facendo strumentalizzare». Così, non è stata neanche considerata la civile possibilità che i destinatari di misure di governo possano essere in disaccordo ma non per questo preda di strumentalizzazioni, che possano essere portatori di osservazioni e proposte importanti o utili, che possano notare incongruenze tra intenzioni e mezzi. Dietro questo vi è un’idea povera – e involutiva in termini democratici – della politica: la politica si esprime e decide secondo i rapporti di forza. Punto. Altre volte la destra ha aggiunto a questo una miserevolezza umana: «Studiate e non manifestate. Pensate all’amore e non ai cortei». Come se fossero cose in contraddizione. Mentre non lo sono mai state Tale miserevolezza rivela un’assenza di esperienza e curiosità umane che impediscono di pensare che si può, al contempo, studiare e partecipare alle cose pubbliche e che è tanto grande la gioia di stare insieme, parlarsi, cercare comunità, incontrarsi e domandarsi del proprio tempo che viene esaltata la possibilità di amicizia e anche di incontro amoroso. Ma – va pur detto – anche nell’opposizione troppo spesso, al di là di intenzioni o meno, è prevalso il riflesso teso a ricondurre la protesta alla vicenda politica contingente, alle sue esigenze particolari, al suo gergo. Da tutto questo deriva un pensiero, diffuso nelle nuove generazioni, che è legittimo: non siamo rappresentati. E’ in questa atmosfera che si manifesterà di nuovo. L’ombra del 14 dicembre peserà. Perché ha svelato tutta la gravità della scena italiana riguardo il rapporto tra generazioni. Tanto che tantissimi hanno sentito di condividere l’esplosione di rabbia anche senza partecipare alle sue azioni. Non si è trattato di provocatori isolati. Non si può rimuovere la forza di una rabbia radicata e diffusa. Però non si può neanche nascondere che le cose sono complicate dal fatto che molti indizi fanno sospettare che qualcuno ha voluto tessere trappole brutte e pericolose. E che a farlo non siano stati né la stragrande maggioranza dei manifestanti né i poliziotti. Tali segni, in questi giorni, vengono purtroppo confermati dall’insistenza su un possibile esito terribile per la giornata di mercoledì prossimo. Si tratta di una profezia urlata. In particolar modo da una componente specifica della destra di governo, che ha una storia politica mai rivisitata, fatta anche di brutte vicende di piazza nella propria giovinezza, rimosse e mai ri-elaborate. Di fronte a questa insistenza su un esito nefasto della prossima protesta acquista ancor maggiore importanza una riflessione su come si manifesterà mercoledì. E diventa ancor più urgente il grande bisogno di smentire una storia italiana che ha spesso depotenziato grandi movimenti, riducendone una parte ai rituali prevedibili dello scontro di piazza e una ben più grande alla mancanza di parola. Questa smentita è forse finalmente a portata di mano. Perché questo movimento sta insegnando a noi – altro che sermoni nostri ai giovani! – una nuova modalità di azione civile. I titoli dei libri davanti ai cortei, il salire sulle gru e sui tetti, il mostrarsi insieme ai monumenti sono stato questo. E, a me come a tanti, è venuto alla mente Gandhi. È lì che vanno trovati i modelli di azione potente che servono a fare valere le ragioni di chi è escluso dal futuro. E penso quanto sarebbe potente se mercoledì – anziché porsi il problema di forzare la zona rossa del centro di Roma, messa lì ed estesa ad arte per attirare nelle vecchie trappole – si decidesse di sdraiarsi per terra, nella Capitale e in cento altre città. Vestiti di bianco per bloccare tutto, in silenzio. Come suggerito dalle nevicate di questi giorni. Pacifiche e implacabili
L’Unità 20.12.10