Sciolgo volentieri il dubbio di Tommaso Nannicini sul giudizio del Pd in merito al ddl Gelmini. Esso incide con forza nella direzione sbagliata e rientra sicuramente nel caso c) della sua tavola dei giudizi. A parole promette valutazione, nei fatti produce solo burocrazia.
È un tipico esempio del format berlusconiano delle leggi-manifesto che in 15 anni hanno prodotto ottimi slogan mediatici e aggravato i problemi, come è sotto gli occhi di tutti. Il testo è composto di 171 norme, che diventeranno più di 500 con le deleghe e richiederanno 1000 regolamenti attuativi e ben 47 decreti del governo. I professori passeranno le loro giornate a scrivere regolamenti e a interpretare le nuove norme, d’altronde non avendo soldi per la ricerca potranno dedicarsi a tempo pieno alla burocrazia. Le università saranno bloccate per almeno due anni a metabolizzare l’indigestione legislativa. Anche la legge Moratti venne presentata come la riforma epocale della meritocrazia. Le degenerazioni dei corsi e delle sedi sono cominciate proprio mentre si approvava quel provvedimento, passato come acqua fresca sui difetti dell’accademia. E certo neppure il nostro governo di centrosinistra riuscì a cambiare rotta. Può reggere un sistema che nell’arco di pochi anni assiste al fallimento di due riforme epocali? Si può star male per assenza di riforme, ma si può morire anche per troppe riforme sbagliate.
Basterebbe questo per dimostrare che il testo è irricevibile. In qualsiasi paese europeo il ministro che avesse proposto 500 norme sarebbe stato rinviato nel suo ufficio a studiare meglio il problema. Solo in un paese segnato dalla mentalità dell’Azzeccagarbugli può succedere che si discuta di un mostro burocratico chiamandolo riforma. Parlare di valutazione e appesantire le norme è come “buscar el levante por el ponente”. Cosa che riuscì una volta a un grande italiano, ma il caso attuale è diverso. Infatti, se si impone per legge che tutti gli atenei debbano fare le stesse cose allo stesso modo – a prescindere dalla dimensione, dalle discipline e dal mix tra ricerca e didattica – rimane ben poco da valutare. La vera riforma, al contrario, avrebbe dovuto cancellare leggi esistenti, promuovere le innovazioni e le differenze, sollecitare il confronto tra diversi modelli organizzativi degli atenei.
Tutte le proposte del Pd andavano nella direzione di una legislazione mite che lascia fare e affida la regolazione alla verifica dei risultati, e su questa strada certo si potrà fare anche meglio in futuro. Esse tendevano anche a cambiare l’agenda per mettere al centro i veri problemi: la ricerca universitaria ridotta al lumicino, l’organizzazione della didattica ancora in mezzo al guado tra esperienze positive e fallimenti evidenti, il diritto allo studio molto al di sotto degli standard europei e degli stessi obiettivi costituzionali dell’articolo 34.
Mi dispiace che Nannicini non abbia avuto la pazienza di leggere i nostri emendamenti perché, ne sono certo, li avrebbe apprezzati come buone notizie. Le sue proposte, infatti, coincidono con quelle del Pd. Sulla tenure track volevamo «rendere equo lo scambio», per usare le sue parole, tra la temporaneità del contratto e la certezza dell’assunzione nel caso di raggiungimento dei requisiti di produttività scientifica da parte del ricercatore. Ci sono oggi circa 50 mila giovani che fanno ricerca o insegnano con contratti temporanei e con stipendi poco dignitosi. Il tabù del ricercatore a vita è stato rotto da almeno dieci anni, ma in modo selvaggio. Il ddl doveva stabilire regole credibili di accesso secondo il merito e invece di fatto conferma la giungla esistente.
Alla valutazione abbiamo proposto di riservare una quota del 20% del Fondo per l’università. La Gelmini ha annunciato sulla stampa una quota del 10%, per poi concordare con i rettori una banda di oscillazione del 3%, ottenendo in cambio il pieno consenso alla legge. Il suo mandato ministeriale si concluderà nel 2013 (?) senza aver fornito neppure un numero sulla produttività scientifica degli atenei. L’Anvur è stata approvata dal governo Prodi e in due anni e mezzo la ministra non è stata capace di metterla in funzione, ma nel frattempo ha bloccato anche l’organismo ministeriale di valutazione, il Civr, che pure aveva ben operato in passato. In mancanza di dati si utilizzano quelli di dieci anni fa, ed è meglio non farlo sapere all’estero perché ci prenderebbero per matti. Il fondo per il merito è stato istituito nel 2004, non è una sua invenzione, e non ha mai impensierito nessuno perché appunto non è ripartito sulla base di dati competitivi. Infine, in questi giorni si appresta a trasformare il Cepu in università non statale con lo stesso rango della Bocconi, abbassando paurosamente l’asticella della qualità del sistema universitario italiano. E pare che la vicenda non sia estranea ai mercanteggiamenti che hanno tenuto in vita il governo.
Ciò nonostante una parte dell’accademia ha creduto in buona fede alle balle governative sulla meritocrazia. È il segno del conformismo diffuso nella discussione pubblica nel nostro paese, soprattutto nella cultura economica. Se fa difetto, almeno in parte, proprio lo spirito critico che è un fondamento dell’università, allora la riforma è davvero necessaria, ma dovrebbe riguardare la funzione culturale di quell’istituzione, prima delle sue norme amministrative.
Infine, una risposta sui simboli. Bersani è andato sui tetti per ascoltare le proposte dei ricercatori che sono molto serie – basta leggere i loro documenti – e sempre coerenti con la regola del merito. Da ministro quando fece le liberalizzazioni subì la protesta di piazza a volte sguaiata e spesso fomentata dagli attuali ministri Tremonti e La Russa. Una coerenza del segretario si vede in questo confronto. C’è bisogno di meno corporazioni e più ricerca scientifica nel futuro italiano.
da Europa Quotidiano 18.12.10
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“Servirebbe la politica”, di Federico Orlando
Mercoledì il senato voterà la riforma universitaria marchiata Gelmini, e il sindaco Alemanno, memore dell’assalto squadrista di Almirante e Caradonna alla Sapienza (31 marzo 1968), pensa: «Serviranno più uomini». Altro da lui non ci si aspetta. Ma le persone più serie, fra cui il capo della polizia e la maggioranza pacifica degli studenti in piazza, sanno che non è solo questione di «più uomini». Sanno che per stroncare l’idra del familismo amorale, della moltiplicazione per cariocinesi delle cattedre e delle sedi universitarie distaccate, dell’invenzione di insegnamenti per un solo studente, del divieto di rettorati a vita, non c’è bisogno di “riforme epocali”. Basterebbero, con una “programmazione pragmatica” all’americana, circolari epocali, rispettose dell’autonomia.
E forse qualche denuncia alle procure della repubblica, se questo governo non fosse in guerra con tutto ciò che è norma e giustizia. Invece si va a una riforma in cui di epocale c’è, oltre alla ministra, l’elusione dei due problemi centrali: che sono il finanziamento della ricerca e la cultura del merito.
Il governo si limita a sniffarli. Chi ha percorso tutto l’iter di studente, assistente, ricercatore, ordinario, emigrante di andata e di ritorno in patria – mettiamo Giovanni Sartori, Franco Ferrarotti, Ignazio Marino – denuncia (lo diciamo con le parole del medico-senatore) che «la straordinaria carenza di finanziamenti riflette la scarsa importanza che da noi si dà alla ricerca come strategia dello sviluppo di tutta la società». In America, dove non solo la ricchezza ma anche la crisi è assai più grande che da noi, nel 2011 saranno spesi in ricerca 30 miliardi di dollari (25 miliardi di euro) pari alla nostra intera manovra finanziaria.
Quanto alla cultura del merito, casi come quelli di Marino o di altri ricercatori spiegano che cosa sia quella cultura: «Arrivato in Usa nel 1985 – racconta – compresi che il mio contratto per un anno era la mia più straordinaria risorsa, perché, di anno in anno, sarei stato rivalutato sempre di più sulla base dei miei risultati scientifici. Il mio precario assegno per 365 giorni, rinnovabile, era la leva che consentiva a un immigrato con visto di studio, e solo successivamente anche di lavoro, di conseguire infine l’ingresso permanente nel paese, come direttore del centro trapianti del governo americano a Pittsburgh. Sarebbe come se in Italia, un immigrato dalla Nigeria, molto capace, dopo 7 anni diventasse direttore del Cnr o dell’Agenzia Spaziale».
È questa la democrazia che l’avvocata Gelmini non conosce. E non è solo americana. In Inghilterra, dove il nostro senatore fece la sua prima esperienza al centro trapianti di Cambridge, diretto da Sir Roy Calne (la regina lo aveva fatto lord perché era l’unico al mondo capace di trapiantare fegati nell’uomo), si recò in segreteria per sapere a chi rivolgersi per orientarsi. «A Sir Roy – fu la risposta – gli lasci un bigliettino nella casella postale alla sua porta, e le risponderà». Stralunato, il giovane italiano scrisse al Sir, infilò la letterina, e la sera, ritirandosi, trovò nella corrispondente casella della propria porta la risposta di Sir Roy, scritta con la stilografica nera. Quale distinzione si fa in Italia tra un vero “barone” e un avventuriero baronetto? Nessuna.
Così si usa la livella, chiamata età di pensionamento. È l’altra faccia del razzismo anagrafico, quello che ammazza i “baroni” anche veri per fare “largo ai giovani”? Quali baroni e quali giovani? La riforma sembra aggrapparsi solo al cimitero, dove il barone e il suo cameriere (poetava Parini: lei lo conosce, ministro?) sono livellati nella stessa terra; e al giovanilismo, di cui l’antifascista Croce, che lo distingueva dalla gioventù, diceva «è una malattia da cui si guarisce».
Meglio avrebbe fatto la ministra ad aggrapparsi a un minimo di programmazione. Quella pragmatica di cui dicevamo. Il suo collega Fazio fa sapere che nei prossimi dieci anni saremo carenti di personale sanitario. E non succede niente.
Negli Usa, ogni anno i presidi di medicina (e le università sono in gran parte private) si riuniscono per le previsioni sulle esigenze del paese: quest’anno si sono riuniti per sapere di quanti medici ci sarà bisogno nel 2016, e hanno deciso quanti studenti possono entrare in facoltà nel 2011. Noi sappiamo (ce lo dice Fazio) che avremo bisogno di ventimila medici tra 10 anni, ma non c’è stata alcuna riunione di presidi col ministro della salute per valutare quanti studenti in più o in meno dovranno essere iscritti l’anno prossimo. Ci sarà un motivo. Lo pensano molti studenti. Pensano che tutta la politica di questo governo sia premeditatamente rivolta a impoverire l’istruzione pubblica per favorire quella privata in cambio di benedizioni. La mancanza di programmazione nell’insegnamento pubblico è quanto di meglio ci sia per ammazzarlo. Così istruzione e salute torneranno privilegio di ceto. Senza bisogno di cancellare la costituzione del 1948.
La rivolta dei giovani, a differenza della Pantera e dell’Onda, è dunque una ribellione anche di carattere sociale generale, contro il governo ancien régime Berlusconi-Bossi. Essa si arricchirà sempre più di presenze di studenti stranieri – la rivolta inglese è contro le tasse, preludio di privatizzazione. E troverà, come il 14, il suo detonatore in altri atti sconsiderati del governo, siano riforme alla Gelmini o voti di fiducia espressi da vacche parlamentari.
Ai giovani – secondo il filosofo Giacomo Marramao – è stata tolta la dimensione del tempo storico lineare garantito. Con la conseguenza che ogni atto che cada come sale sulla loro ferita crea quella che Machiavelli chiama l’ “occasione” e i greci avevano chiamato kairòs: la nuova dimensione del tempo, sussultorio, violento, che altera i comportamenti individuali normali, trasformandoli in rabbia, rottura, come ha fatto la fiducia al governo, piovuta nel mezzo della protesta anti-Gelmini. Le vite precarie – e i giovani italiani sono al penultimo posto in Europa per garanzie di occupazione – sono più facili da orientare e a orientarsi verso la violenza. Che a volte è gratuita, ma nasce sempre da disagio reale. È un problema che va al di là della buona volontà di Manganelli, della polizia, dei carabinieri sottopagati e male attrezzati. È un problema di classe dirigente.
Francamente non si capisce perché, di fronte alla rozzezza intellettuale e morale della maggioranza, non solo il Pd ma tutte le opposizioni non abbiano chiesto (come chiedeva ieri Europa con l’articolo di Mario Lavia) almeno una pausa di riflessione sulla riforma, sollecitandone il rinvio di qualche settimana; e non si capisce perché rettori docenti ricercatori precari studenti non abbiano promosso per tempo una conferenza nazionale dell’università, per avanzare un’autonoma proposta di riforma. Eppure, in tutti i rami dello studio, ci sono nelle università punte di altissimo valore.
Mussolini provò a mortificarle imponendo il giuramento di fedeltà. Questi mercanti da fiera le mortificano ignorandole. Solo l’alleanza (autoselezionata) tra giovani che vogliono studiare e docenti che vogliono insegnare può impedire il baratto tra leggi e benedizioni.
da Europa Quotidiano 18.12.10
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