Da dove vogliamo cominciare? Dai leghisti in aula avvolti nel Tricolore o dalle auto in fiamme e i novanta feriti nel centro di Roma, dagli pseudo manifestanti che difendono l’idv «Scilipoti dallo strapotere delle banche» e plaudono al suo sostegno al governo e alla sua liberazione dal bisogno o da quegli altri (manifestanti?) che tranquillizzano proteggendolo col braccio il finanziere che in strada impugna la pistola? O forse dalla fine, dal bacio di Berlusconi a Casini e quel che racconta e promette?
Il governo ottiene la maggioranza alla Camera per tre voti 311 a 314 e da qualunque parte la si guardi, la giornata campale di ieri, da qualunque fotogramma si decida di partire è una giornata cupa, grottesca, ridicola, misera, a tratti tragica: in strada tragica. È la giornata della sconfitta: la giornata che segna la sconfitta della politica intesa come confronto di idee e di progetti, l’unico modo lecito di intenderla, la sconfitta di un paese che esibisce al mondo intero come successo la tenuta di un governo che compra col denaro e col ricatto i parlamentari che gli servono e una piazza che dice che la sfiducia è nelle strade, che siamo a un passo dall’irreparabile, che basterebbe niente, ma proprio niente, per trasformare la guerriglia urbana in guerra civile e a poco varrebbe dopo cercare i colpevoli. Dopo è sempre troppo tardi. La tensione sociale è altissima, la distanza tra le scene vissute per strada e quelle viste a Palazzo enorme: per uno Scilipoti o una Polidori che si garantiscono i favori del premier, accolti in saletta riservata per i ringraziamenti, ci sono fuori migliaia di manifestanti, i campani travolti dall’immondizia e gli aquilani dalle macerie, giovani esasperati a cui nessuno farà altrettanti favori, che siano o non siano strangolati dai tassi d’interesse delle banche come il deputato messinese eroe d’un giorno, o di quel giorno lapide.
Ha perso l’opposizione, di un soffio. Perché si possono fare in tanti modi i conti di poi ma non c’è nessun dubbio che se Razzi e Scilipoti, eletti con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, avessero votato con il partito che li ha messi in lista sarebbe finita 313 a 312, il governo battuto. Ha perso Fini perché è altrettanto vero, scegliendo un altro conto del poi, che se le due deputate del suo gruppo Polidori e Siliquini avessero seguito le indicazioni di Futuro e libertà il risultato finale sarebbe stato lo stesso, nonostante i mutui estinti e le università private finanziate (promesse, poi vedremo) ai due idv. Ha perso il Pd e non tanto per Calearo, su cui tutti oggi si accaniscono ma che da tempo aveva traslocato all’Api di Rutelli prima, al gruppo misto poi e infine a quell’improbabile gruppetto di sedicente “responsabilità” si sapeva, di Calearo, e da molto: le sorprese sono state altre ma perché non è stato possibile, evidentemente e per ragioni che i mesi a venire diranno, chiudere un’intesa su una possibile legge elettorale che tenesse insieme una maggioranza alternativa. In questo gran parte ha avuto Casini, che con tutta evidenza baciato in pubblico dal premier non ha perso niente come è solito fare, non vince e non perde quasi mai. Una certa parte l’ha avuta anche la sinistra di Vendola che reclama elezioni, orizzonte del resto prima o dopo inevitabile e oltretutto davvero in queste condizioni salutare.
L’unico problema sembra essere che si andrà molto probabilmente a votare con questo stesso sistema elettorale: quello che ha prodotto i Razzi i Siliquini i Calearo che difficilmente sarebbero stati eletti se la scelta fosse davvero in mano agli elettori.
Ha perso persino colui che in serata con voce impastata vanta da Bruno Vespa di aver vinto: perché ha vinto, sì, ma ha vinto la sua convinzione fondatissima: purtoppo in questo B. ha ragione che si trova sempre qualcuno da corrompere, c’è sempre all’ultimo minuto qualcuno da convincere, con le buone o le cattive da comprare. Diceva Bossi, in aula, un momento prima del colpo di scena: tranquilli, abbiamo anche l’ultimo voto. Ce l’avevano, in effetti. È comparso sotto le spoglie gentili della deputata umbra Catia Polidori, futurista di cui nessuno aveva sino ad allora dubitato, salutata in aula da un applauso scrosciante a mani alte di La Russa e dei suoi sodali, causa di una rissa che fa sospendere la seduta, l’esperto Menia che divide i colluttanti, il grosso Corsetto che si frappone, Fini che sospende i lavori. Battutacce, fischi, applausi. Di Catia Polidori hanno scritto per settimane e in tempi non sospetti il Corriere la Repubblica e i massimi quotidiani finanziari che fosse parente stretta di Francesco Polidori, il signor Cepu, quello che aveva assicurato a Berlusconi una capillare campagna di porta a porta, quello che ha di recente ottenuto votato anche da Catia i favori di una legge che fa grande beneficio al suo istituto per studenti difficili di famiglie facoltose. Ieri in tarda serata, dopo che Luca Barbareschi aveva detto «è stata minacciata, le hanno giurato che avrebbero fatto chiudere la sua società», la deputata Polidori ha smentito di essere legata da parentela al suo omonimo: sono solo vicini di casa, ha detto, in una frazione di Città di Castello che conta 30 abitanti, evidentemente in maggioranza Polidori. Coincidenze.
Siamo sconfitti noi, tutti noi italiani che da settimane siamo costretti ad occuparci dei casi privati le prime mogli, le aziende, i mutui di deputati di terz’ordine ci cui nessuno fino ad oggi aveva sentito parlare e che all’improvviso diventano portatori di un immenso valore marginale, decisivi per le sorti del paese. Se il signor B resta in sella lo si deve a gente come Siliquini, Catone, Cesario, Razzi, Grassano, astenuti Moffa e Gaglione, qualcuno di voi sa dire in cosa si siano distinti finora, a parte forse le loro rispettive professioni? Alcuni di loro hanno tenuto ieri l’aula col fiato sospeso fino all’ultimo: mai nessuno, immaginiamo neppure in famiglia, aveva atteso l’arrivo di Scilipoti con tanta apprensione. Mai l’ingresso in aula di Giulia Cosenza, madre imminente, era stato salutato da tanto sollievo. Federica Mogherini e Giulia Bongiorno, le altre partorienti, accolte da applausi di metà emiciclo. Può un governo dirsi vittorioso a queste condizioni? Possono gli italiani riconoscersi in un simile sistema di rappresentanza? Si può sperare qualcosa di meglio con queste stesse regole, per l’avvenire?
Chi ha più soldi e più potere vince, è questa l’unica regola. Chi ha più soldi, chi può pagare di più e minacciare più forte, chi è più persuasivo. Non è più una questione di idee, la politica non c’entra: il gruppo dei finiani si è smarcato in nome di un’idea, ha cambiato posizione in nome di un dissenso. Ha provato a immaginare una destra possibile senza e dopo il signor B., senz’altro anche immaginando il proprio avvenire: politico, tuttavia. Il proprio avvenire politico. Non un’opposizione da sinistra: un’opposizione da destra. In questo caso ha prevalso l’immediata competizione interna che si scatena ad ogni latitudine fra aspiranti bracci destri del capo: Moffa e non è il solo a pensarlo ha chiesto le dimissioni di Bocchino, ieri. Troppo potere a Bocchino, troppo in vista, troppo favorito: perché lui sì e noi no?
Dentro questo: Melania Rizzoli avvolta al tricolore e l’avvocato Consolo fischiato per aver detto no, gesti dell’ombrello e cori, baci alle dame, favori al cavalieri. Fuori la guerriglia. Roma, in una giornata prenetalizia, deserta: mezzi pubblici sospesi e blindati a transennare le strade, passanti inconsapevoli e turisti sbigottiti. Poi le fiamme, auto bruciate e letame che vola, sampietrini petardi bastoni, agenti in borghese indistinguibili dai manifestanti, manifestanti resi irriconoscibili dai caschi. Studenti delle medie che riparano a casa degli amici per paura, insegnanti che chiamano casa dicendo i ragazzi li teniamo a scuola, fuori c’è pericolo.
Non è una capitale che abbia vinto niente, questa. Non è normale dissenso, non è un Italia in cui continuare a vivere, o per chi lo preferisca tirare a campare, sereni. Non si tira a campare così. Chissà cosa pensa davvero Bossi, che oggi all’improvviso dice con insolita indulgenza verso il detestato Casini che non c’è “nessuna preclusione verso l’Udc”. Chissà se davvero il morbido intervento del suo Giampero D’Alia prelude a una nuova intesa con gli ex democristiani oggi perno del terzo polo, se il terzo polo farà da terza gamba al governo Scilipoti. Ogni tempo ha i suoi trenta denari, diceva l’altra sera Casini in tv. Giuda era uno, però. Qui c’è la fila, col numero in mano. Quindici giorni di troppo, aveva detto Bersani quando la fiducia fu fissata al 14 dicembre con pausa di chiusura delle Camere. Aveva ragione. Due settimane di mercato di troppo. Ora, all’orizzonte, non resta altro che un vivacchiare scambiandosi di volta in volta il sacco dei denari. O il voto, certo.
l’Unità 15.12.10
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Il segretario parla di «governo Scilipoti», di Simone Collini
Franceschini loda la compattezza dei 206 deputati Pd
D’Alema: «Berlusconi fattore di corrompimento». Confronto sulle alleanze, i malumori di Fioroni
Bersani: vittoria di Pirro «Di più non potevamo fare»
«Siamo al governo Scilipoti» ̧ è l’amaro commento del segretario del Pd. Si precipita verso il voto, sul piatto c’è il tema delle alleanze, Veltroni oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico. Fioroni si farà sentire.
Bersani si affida all’ironia, per quanto amara: «Siamo al governo Scilipoti». D’Alema, tagliente: «Berlusconi si conferma un fattore di corrompimento della vita pubblica». Franceschini sottolinea il voto unanime dei 206 deputati Pd e il fatto che la mozione di sfiducia
«sarebbe passata se non ci fossero stati i tradimenti di due deputati dell’Idv». Letta invita tutti a «non mollare» dopo questo «primo passo»: «Dobbiamo proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini».
I dirigenti del Pd escono dall’Aula e via via si infilano nell’ufficio del segretario a Montecitorio, nella cosiddetta Galleria dei presidenti. Il risultato della votazione è stato dato da pochi minuti. Su un divanetto di fronte ai ritratti di Saragat e Terracini siede tutto sorridente Scilipoti, che mette il telefonino in modalità viva voce per far sentire al collaboratore che gli sta accanto che Berlusconi lo ha chiamato per ringraziarlo. Arrivano anche Bindi, Fassino, Marino, Fioroni, Gentiloni e Veltroni. Fi-
nocchiaro è bloccata al Senato per via degli scontri di piazza. Anche nel Transatlantico della Camera inizia ad arrivare l’odore di bruciato. Nella stanza di Bersani c’è un clima non proprio allegro. Di fronte agli altri seduti in circolo, il segretario definisce quella di Berlusconi una «vittoria di Pirro», difende la strategia seguita fin qui «abbiamo ottenuto il massimo possibile in questo momento, prima avevamo di fronte una maggioranza di un centinaio di voti, ora si sono ridotti a tre» ribadisce che nell’azione di contrasto al governo ci saranno «rapporti» anche con Fini e Casini e continua a insistere sulla necessità di dar vita a un «governo di responsabilità nazionale». Linea difesa da Franceschini, D’Alema, Bindi e non contestata da nessuno nel corso della riunione.
PERPLESSITÀ E CRITICHE
Ma Veltroni, che oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico e ha deciso di far slittare di una settimana il Lingotto 2, rimane convinto che adesso il Pd debba «investire su se stesso» evitando di impegnare tutte le energie nelle strategie parlamentari con le altre forze politiche. E Fioroni, che sta dando vita a una fondazione di ex-ppi (il nome potrebbe essere, parafrasando don Sturzo, «Liberi dai forti») evita di ripetere durante la riunione ristretta le critiche espresse di fronte ai suoi per la scelta degli interventi in aula: «D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, manca Occhetto e hanno rifatto il Pds»).
Ma lasciando la stanza del segretario e arrivando in Transatlantico, Fioroni non nasconde le sue perplessità per il credito dato ai finiani: «L’avete ascoltato l’intervento di Bocchino? L’avete per caso sentir fare almeno un accenno al governo di responsabilità nazionale?». A un altro ex-popolare come Grassi non sono piaciuti neanche i riferimenti del capogruppo Fli all’Msi e Parisi, che pure era stato tra i primi a sollecitare la presentazione di una mozione di sfiducia, attacca: «Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni, invece che all’inseguimento di un inesistente terzo polo. Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea di condotta?». Per non parlare delle critiche proveniente dal fronte dei “rottamatori”, con Civati che constata che «la zona gianfranca, come temevamo, non ha retto» e con il sindaco di Firenze Renzi che critica apertamente la strategia seguita dai vertici Pd: «Fini in 30 anni non ha azzeccato una mossa, neanche per sbaglio. Penso a chi ha osannato Fini in questi 6 mesi, convinto fosse un “compagno” solido per il futuro».
Lo scenario
Veltroni oggi riunisce quelli di MoDem Dubbi su Fli e Casini
LE URNE E IL NODO ALLEANZE
Bersani per ora non si preoccupa, ma sa che presto potrebbe scatenarsi una discussione all’interno del Pd. Se è vero che anche dopo questo voto «non cambia nulla, il governo non ce la farà e la crisi politica ne esce drammatizzata», è anche vero che lo sbocco più verosimile in questo quadro sono le elezioni anticipate. Bersani rimane convinto che «per un Paese nei guai, pensare al voto è da irresponsabili», ma dice anche che il Pd non teme le urne. Il nodo delle alleanze è però ancora tutto da sciogliere. Non a caso alla riunione si è preferito evitare di impegnarsi in una discussione su questo punto.
Bersani punta a una coalizione in cui non rimangano fuori i centristi, e l’annuncio di Casini che in caso di voto l’Udc non si alleerà al Pd non ha fatto piacere. Un’alleanza ristretta a Pd-Idv-Sel avrebbe poche chance. Inoltre ha provocato non poca irritazione tra i Democratici, tra i lettiani ma non solo, il fatto che in una giornata come questa Vendola si aggirasse per la Camera dicendosi pronto a candidarsi a premier.
L’Unità 15.12.10