Domani andrà in scena il rito della fiducia al governo. Annunciato da tempo e poi rinviato. Messo in dubbio e infine ribadito. Perché la fiducia è una cosa seria. Anche se è una merce rara, in politica come nella vita quotidiana. Ma è necessaria in Parlamento: per verificare l´esistenza di una maggioranza, più che di un legame di “fiducia”.
Alla base del sostegno a un governo, a un partito o a un premier ci possono essere, infatti, diversi motivi. Spesso personali. Ostilità e solidarietà, simpatia e antipatia. Ma anche interesse e utilità. Perché nella democrazia rappresentativa non si può ricorrere al «mandato imperativo», che vincola l´eletto alla fedeltà verso i suoi elettori. Per cui gli eletti dispongono di un buon grado di autonomia individuale nelle proprie scelte. Possono, cioè, decidere con una certa libertà come agire, nelle singole questioni, ma anche in quelle più importanti. Fino a dissociarsi dalle posizioni del partito o dello schieramento nelle cui liste sono stati eletti. Non solo: fino al punto di uscire da un partito o da uno schieramento per scivolare in un altro. È sempre avvenuto, in realtà. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare alla rapida conclusione del governo Prodi, nel gennaio 2008. Affondato dal «voto amico».
In questa legislatura, però, il fenomeno ha assunto proporzioni ampie e inattese. Tanto da mettere in crisi – comunque vada la verifica di domani – la maggioranza larga di cui disponeva il centrodestra dopo le elezioni del 2008. A causa, anzitutto, della frattura nel Pdl, seguita al distacco insanabile di Fini e dei suoi «fedeli» (?) da Berlusconi e il suo Popolo (della Libertà). Nelle ultime settimane, in particolare, i «distacchi» e i «ripensamenti» si sono alternati e allargati, in modo frenetico. Ispirati da logiche diverse. Dove gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori. Dove i fini politici e la morale hanno imboccato percorsi divergenti – come ha scandito con forza Eugenio Scalfari ieri. Dove la morale si è perduta, all´ombra di calcoli assai più venali. Tanto che si è parlato – e si continua a parlare – di «mercato» dei voti. E dei parlamentari. Di cui sta occupando perfino la magistratura.
Sarebbe, peraltro, poco utile – a mio avviso – circoscrivere questi comportamenti dentro i confini dell´indignazione (anch´essa una merce molto rara, in questi tempi).
Gli slittamenti di partito e schieramento, oggi, avvengono sulla spinta di incentivi diversi – seppure, talora, eguali – rispetto a quelli che alimentano la «fedeltà» politica. Cioè: i vantaggi di carriera, di reddito, di potere, di visibilità legati al ruolo di parlamentare. D´altronde, la coerenza con i principi e i fini assoluti – nel linguaggio di Max Weber: «l´etica della convinzione» – non ha mai avuto una credibilità così bassa, in politica. I legami ideologici e associativi, perfino di categoria, si sono indeboliti e quasi dissolti, insieme ai partiti e alle grandi organizzazioni di interesse. Oggi, in fondo, i parlamentari a chi rispondono? I partiti praticamente non ci sono più. Salvo la Lega. E, comunque, sono tutti centralizzati e personalizzati. Compresa la Lega. Per cui diventano – sono divenuti – canali di mobilitazione individuale. Metodi per affermarsi e riprodurre la propria posizione. Certo, Berlusconi ha diviso il mondo in due: tra se stesso e i comunisti. Fra la libertà e la barbarie. In questo modo è riuscito a restituire un senso a una politica che aveva perduto senso. Nonostante sia lecito e legittimo interrogarsi: se abbia senso una politica fondata su questa alternativa. Ma tant´è. Di fronte a uno spettacolo politico tanto desolante (in un´epoca nella quale non c´è distanza fra politica e spettacolo), si ripropone la questione posta all´inizio. L´autonomia degli eletti e dei parlamentari rispetto agli elettori. Fino a che punto può spingersi? E quando, come in questa fase, produce comportamenti del tutto dissociati rispetto alla volontà degli elettori, si può parlare ancora di democrazia – anche se rappresentativa?
Il fatto è che nella democrazia rappresentativa il principio dell´autonomia degli eletti deve essere bilanciato da quello della «responsabilità». Ricorrendo di nuovo alla lezione di Max Weber: l´etica del politico è «responsabile» in quanto considera le conseguenze delle proprie scelte sul piano pubblico. Ma anche sul piano elettorale. (Come sottolinea Bernard Manin, nei «Principi del governo rappresentativo», pubblicato da «il Mulino»)
In altri termini: gli eletti possono anche passare a un gruppo – magari uno schieramento – diverso. Proclamare l´interesse pubblico, praticando in realtà quello privato – e familiare. Però poi ne devono rispondere ai propri elettori. E agli elettori – in generale. Razzi oppure Calearo (ma solo chi lo ha candidato nel Pd poteva ignorare che non marcia a sinistra neppure quando guida in Inghilterra): dovranno rispondere delle loro posizioni e del loro operato alle prossime – più o meno imminenti – elezioni. Tuttavia, ciò difficilmente avverrà. Anzi: non avverrà di certo. Non solo perché la memoria, in politica, è sempre corta. E dal 15 dicembre, cioè: dopodomani, i «mercanti della fiducia» – finito il loro momento di gloria – probabilmente torneranno nell´ombra. Ma soprattutto perché gli elettori hanno perduto ogni potere di scelta «personale». Cioè, «personalmente», non possono esprimersi sulle «persone» che li rappresentano. In base a valutazioni retrospettive sull´azione degli eletti. Considerando gli effetti di ciò che essi hanno fatto durante il loro mandato: per noi, la nostra categoria, la nostra zona. In riferimento ai valori in cui crediamo. Perché non esistono possibilità di verifica e di controllo diretto da parte degli elettori, con questo sistema elettorale, centralizzato, senza preferenze, a liste bloccate, che premia le coalizioni. Che attribuisce alle leadership di partiti personali oppure oligarchici il potere di scegliere e decidere. Chi eleggere e dove. Chi candidare, ricandidare oppure escludere. Questa democrazia, sempre meno rappresentativa. Sicuramente «irresponsabile». E poco democratica. Riproduce e promuove un´etica dell´irresponsabilità: civile e personale.
La Repubblica 13.12.10