Gharbi Nabila ha ucciso il marito con una coltellata dopo aver subito per anni la sua violenza. Il tribunale di Roma, per presentare il suo protocollo contro la violenza in famiglia al Salone della Giustizia di Rimini, sceglie di raccontare la storia di trentottenne tunisina che da vittima è diventata la “carnefice” di un marito-padrone, italiano, da cui aveva avuto due figli. Ad armare la mano di Nabila era stato proprio l’amore per i suoi due bambini, affidati ai servizi sociali, perché la coppia era stata giudicata, a causa del carattere violento del padre, non adatta a prendersi cura di loro. L’omicidio è avvenuto il 28 dicembre 2006, proprio alla vigilia di un atteso incontro tra Gharbi e i suoi figli. Un appuntamento che la mamma tunisina ha visto sfumare quando il marito è rientrato a casa, per l’ennesima volta, ubriaco e pronto a far esplodere la sua furia.
La Corte d’Appello di Roma ha riconosciuto alla donna l’attenuante della provocazione condannandola, nel maggio 2009, a una pena di 8 anni che sta scontando in un carcere di Civitavecchia, in attesa di potersi ricongiungere con i figli. «Non avevamo precedenti specifici su cui basare la nostra decisione – spiega il relatore della sentenza Piero de Crescenzio, attuale presidente di sezione del Tribunale penale di Roma – abbiamo però considerato l’effetto di un accumulo negli anni di situazioni di prevaricazione». Era stata la stessa Gharbi Nabila a spiegare il suo calvario ai giudici della Corte d’Appello con un racconto sgrammaticato ma pieno di sentimenti che, grazie a una liberatoria del tribunale, verrà riproposto questa sera dall’attrice Paola Gassman presso lo stand del Tribunale di Roma.
L’occasione è la presentazione di un protocollo messo a punto dal Tribunale di Roma, e sottoscritto da istituzioni e ospedali, per contrastare la violenza in famiglia che ha come destinatari donne e bambini. Una rete di cooperazione che deve imbrigliare un fenomeno tanto diffuso quanto taciuto dalle stesse vittime. «Il Tribunale di Roma, che è il più grande d’Europa ha avuto nel 2010 solo 13 ricorsi per l’ottenimento di misure di protezione – spiega il consigliere Luciana Sangiovanni, referente della sezione civile per il protocollo – un dato che contrasta con i numeri delle statistiche sulla violenza. Lo scollamento nasce dalla vergogna, paradossalmente provata dalla vittima, di denunciare i soprusi subiti. Per questo il nostro protocollo, nato in seguito a un incontro con il Consiglio superiore della magistratura, prevede la creazione di una rete assistenziale che entri in azione prima, dopo e durante la violenza». Un ruolo importante è svolto dagli ospedali. Nelle numerose strutture romane che hanno aderito al protocollo, tra cui il Policlinico Umberto I e il pediatrico Bambino Gesù, sarà introdotto un «Codice rosa» per classificare le situazioni di violenza familiare: fisica, psicologica, sessuale o di sfruttamento. Il codice fa scattare i contatti con le forze dell’ordine e i centri antiviolenza. Tribunale, Procura e Tribunale dei minorenni si impegnano a prendere in carico i casi e a intervenire in tempo reale quando gli atti persecutori lo richiedono, l’idea è quella di mettere in atto prassi virtuose, dall’abbattimento dei tempi di fissazione dell’udienza al filo diretto con le forze dell’ordine. Nella rete “interforze” è inserita anche la Ong «Differenza donna» con compiti che vanno dalla formazione degli operatori all’impegno a fornire notizie alle donne e sulle donne, spesso prigioniere di rapporti vittima-carnefice che solo raramente vengono denunciati.
Il Sole 24 Ore 05.12.10