Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l’ha varata, contro la protesta – questa sì nuova, per l’imponenza della mobilitazione giovanile. La via crucis della riforma Gelmini è terminata, con la sua approvazione alla Camera. Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l’ha varata, contro la protesta – questa sì nuova, per l’imponenza della mobilitazione giovanile, macchiata da qualche violenza dei centri sociali – che ha pesantemente interessato le città del nord, del centro, del sud. Una riforma che passa con i voti in aula e, nelle piazze, con i colpi di manganello e di lacrimogeni, reali e simbolici. Altro non è, infatti, l’affermazione di Berlusconi che i giovani per bene sono quelli che stanno a casa a studiare, uno stereotipo reazionario dei tempi del Sessantotto, per di più sulla bocca di chi pare frequentare abitualmente non la gioventù studiosa, quanto piuttosto quella avvenente e compiacente. È una riforma contrabbandata come rivoluzionaria, poiché sarebbe in grado di sconfiggere le “baronie”, il mostro che a sentire la destra è responsabile di ogni male dell’Università – della corruzione, del clientelismo, del nepotismo, dell’inerzia, della proliferazione delle sedi, dei fuoricorso, delle ingiustizie concorsuali. Un mostro abilissimo, che avrebbe plagiato i giovani, spingendoli, nella loro ingenuità, a contrastare la legge che invece sconfiggerà il malaffare dei professori universitari.
Ebbene, i baroni grazie a questa legge potranno continuare a decidere indisturbati chi insegnerà nelle università. L´abilitazione nazionale, che avrebbe dovuto sanare gli scandali degli attuali concorsi locali, potrà essere concessa indiscriminatamente, senza limiti numerici, e le università potranno così scegliere, fra la massa degli abilitati, i docenti più graditi ai vari potentati.
La valutazione della ricerca, che dovrebbe far emergere e sanzionare i docenti inattivi, non decolla neppure con le istituzioni che già esistono: e la riforma l´affida a un nuovo carrozzone di Stato, che esiste solo sulla carta.
L´autonomia universitaria è di fatto cancellata sia perché, nonostante siano state eliminate in extremis alcune norme che prefiguravano un vero commissariamento da parte del ministero dell´Economia, questo resta in ogni caso il grande guardiano del sistema universitario; sia perché la riforma, per diventare effettiva, ha bisogno di più di cento nuovi regolamenti, che dovranno essere tutti approvati dal ministero della Pubblica Istruzione.
Per i giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria, poi, c´è solo la prospettiva di un lungo precariato, fino a dieci anni, che si snoderà tra assegni di ricerca e posti da ricercatore a termine; ma non c´è alcuna garanzia che apra, ad almeno una parte di loro, uno sviluppo di carriera verso la stabilizzazione. La via dell´emigrazione resta lo sbocco per i talenti che l´Italia prepara, per regalarli poi ad altri Paesi.
Se nelle sue finalità positive la riforma fa acqua da tutte le parti, in quelle negative è più efficace. Il peso dei professori (del Senato Accademico) nella gestione complessiva degli atenei cala molto, a favore soprattutto dei rettori, del Consiglio d´amministrazione (infarcito di esterni, sul modello delle Asl), e del direttore generale.
Anche se l´autoritarismo aziendalistico che informava il testo originale è in parte attutito, l´intento punitivo verso una delle poche élites non compattamente schierata con la destra è piuttosto evidente. Tra breve, toccherà anche alla magistratura, che però è ben più potentemente attrezzata per resistere. I professori in futuro saranno meno numerosi, per effetto della valanga di pensionamenti in atto e del mancato rimpiazzo; ma saranno anche meno autonomi, più simili a impiegati che a quella magistratura scientifica della nazione che in passato aspiravano a essere. E ciò avviene per indiscutibili colpe di alcuni di loro, e anche per preciso indirizzo politico di questo governo, che con la cultura e la ricerca certamente non si trova a proprio agio, e che ha cavalcato spregiudicatamente un generalizzato sfavore dell´opinione pubblica – solo parzialmente giustificato – verso l´Università.
Soprattutto, per questa riforma non ci sono stanziamenti aggiuntivi. A differenza di quanto avviene nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, in Italia l´università è un costo, e non un investimento. è un problema, e non una risorsa. La società della conoscenza è un orizzonte non condiviso dalla destra al governo. Non ci sono soldi per incentivare il merito dei professori, e non ci sono – anzi, sono quasi del tutto spariti i pochi che c´erano – per le borse di studio per gli studenti; e questi hanno capito ben presto (altro che sprovvedutezza!) che nel loro futuro ci sono più tasse ma non una politica di miglioramento reale del sistema universitario in termini di servizi e di qualificazione della docenza.
Baronie appena scalfite, centralismo normativo, riproduzione del precariato, degrado complessivo dell´immagine dell´Università e sua possibile ‘aslizzazione´, compressione del ruolo dei docenti e degli studenti, ulteriore frustrazione dei giovani, nessun investimento. Queste sono le cattive notizie, dovute al fatto che questa destra, oscillante fra il populismo e il gattopardismo, non ha un´idea di università, come non ha un´idea di Paese. La buona notizia è che la riforma resterà probabilmente inapplicata, perché la crisi di governo la spazzerà via. La corsa contro il tempo per approvarla, infatti, ha verosimilmente il solo scopo di munire la destra di almeno una riforma da sbandierare in campagna elettorale.
A questo – a propaganda – si è ridotta l´università, al tempo del governo Berlusconi.
La Repubblica 01.12.10
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“Svolta epocale”. “No, un disastro” Dal precariato al taglio dei finanziamenti, tutti i nodi della riforma, di Corrado Zunino
Opposizione, studenti e ricercatori puntano il dito contro ingresso dei privati e riduzione delle borse di studio. Con il voto alla Camera delle 20,10 di ieri – 307 “sì”, 252 contrari, 7 astenuti, finiani decisivi – prosegue il suo cammino la legge, la 3687a, sull´organizzazione delle università e “l´incentivazione di qualità ed efficienza” del sistema. In attesa del secondo e definitivo passaggio al Senato – il ministro Gelmini lo vuole in calendario dal 9 dicembre e comunque prima del 14, giorno del voto sulla fiducia al governo – il premier Berlusconi vende il passaggio sul “ddl” come epocale. In verità Mariastella Gelmini è il quarto ministro negli ultimi dieci anni ad aver annunciato una riforma degli atenei (Berlinguer, Moratti e Mussi, i predecessori) e la sua legge in alcune parti, come la governance delle facoltà, riprende le indicazioni del ministro Luigi Berlinguer, governo Prodi.
La riforma Gelmini rappresenta un tentativo di introduzione di elementi di valutazione tipicamente anglosassoni in un sistema feudale e ingessato che, di fatto, garantisce al paese che ha inventato le università di non essere più rappresentato tra i primi duecento atenei al mondo (La Sapienza e Bologna sono appena uscite dalla classifica più prestigiosa). Il ministro Gelmini assicura che taglierà le gambe ai baroni e spiega che i rettori potranno restare in carica al massimo otto anni, che i “prof” saranno valutati anche dagli studenti e l´intera facoltà da agenzie esterne (l´Anvur, istituito dal ministro Mussi e fin qui mai utilizzato dalla Gelmini). Poi, però, il “ddl” accentra nelle mani dei rettori nuovi poteri: possono reggere l´ateneo e presiedere il consiglio d´amministrazione. Non è un caso che, insieme a Confindustria, sia proprio la Conferenza dei rettori ad aver appoggiato petto in fuori la riforma, venti dissidenti a parte.
Le università italiane restano autonome, ma se saranno gestite male riceveranno meno finanziamenti. Gli atenei che non riusciranno ad uscire da uno stato di deficit cronico saranno commissariati. Il Senato accademico resta il luogo dell´elaborazione didattica, ma perde ogni funzione di amministrazione a vantaggio del nuovo organo di derivazione privata: il Consiglio d´amministrazione. Sarà il cda ad occuparsi di assunzioni e spese e avrà almeno tre membri esterni su undici. La legge rivedrà, poi, la piramide degli stipendi, a favore degli insegnanti più giovani. Si promette l´aumento degli importi per gli assegni di ricerca e vengono abolite le borse post-dottorali, sottopagate e senza diritti. Non sarà più possibile la docenza gratuita, se non per figure professionali alte. E un professore entrerà a ruolo a 30 anni (contro i 36 precedenti) con uno stipendio da 2.100 euro (oggi sono 1.300). Tutto questo, però, non ha ancora alcuna copertura finanziaria.
Sul fronte “università telematiche”, la riforma oggi consente al Cepu, struttura vicina al premier, di essere affiancato all´università Bocconi. E il cancro del familismo negli atenei viene affrontato impedendo ai parenti fino al 4° grado di partecipare ai concorsi nazionali.
La Repubblica 01.12.10
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