Annunciata da giorni, ieri sera si è scatenata in tutto il mondo l’orgia dei documenti riservati: sono diventati pubblici centinaia di migliaia di messaggi che la diplomazia americana ha spedito negli ultimi anni a Washington da ogni angolo del mondo, insieme alle direttive che facevano il percorso inverso, quelle che il Dipartimento di Stato ha indirizzato ad ambasciate e consolati.
Una tempesta per i rapporti internazionali, destinata ad alzare la tensione contemporaneamente nei punti più caldi del pianeta: dal Golfo Persico dove ora non è più segreta la richiesta saudita agli americani di attaccare urgentemente l’Iran per distruggere il programma nucleare di Teheran.
All’Afghanistan del «paranoico» Karzai; alle ipotesi di riunificazione coreana con la notizia del missile di Pyongyang capace di colpire; fino all’accusa ai cinesi di aver bloccato Google.
Una situazione difficile da gestire per la Casa Bianca e per la diplomazia americana che vengono messe a nudo nei loro ragionamenti riservati, nelle loro strategie, nelle loro debolezze e nei loro peggiori aspetti. Quale clima ci sarà da questa mattina al Palazzo di Vetro a New York nel momento in cui si viene a sapere che lo scorso anno partì una direttiva firmata Hillary Clinton in cui si chiedeva di far partire una campagna di spionaggio contro i vertici dell’Onu?
Una tempesta per le opinioni pubbliche di ogni Paese che da oggi possono sapere cosa pensano dei loro governi gli americani. A far scalpore non sono solo gli scenari che emergono dalle analisi a stelle e strisce, scenari che in parte già conosciamo da tempo (sono forse un mistero la diffidenza verso il presidente iracheno Karzai o il disprezzo per Ahmadinejad?), ma la possibilità di leggerli nero su bianco.
Il caso italiano è emblematico: le feste «selvagge» di Berlusconi sono forse una sorpresa per qualche nostro concittadino, così come il rapporto assiduo e opaco con Putin o Gheddafi non sono forse materia su cui ci si interroga da anni? I documenti americani, ad una prima lettura delle anticipazioni, non rivelano nulla di terribilmente nuovo, ma la loro forza è un’altra: mostrarci come i discutibili comportamenti del nostro primo ministro, sia nel suo privato sia sullo scenario internazionale, abbiano un peso nella nostra immagine nel mondo. Anche questo può apparire scontato, ma leggere che gli americani considerano Berlusconi «il megafono di Putin in Europa» (parlando di «regali generosi» e «contratti energetici redditizi») e lo definiscono «incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno» è qualcosa che lascia il segno. Ma soprattutto qualcosa che questa volta non potrà essere smentito o accolto con una scrollatine di spalle.
Nell’estate del 2009 Maurizio Molinari scrisse su questo giornale che l’amministrazione Obama era preoccupata e irritata per la politica energetica del nostro governo troppo dipendente da Mosca, che c’erano pressioni sull’Eni perché cambiasse la sua politica sui gasdotti troppo sbilanciata – a parere di Washington – sull’accordo con Gazprom per dare vita al South Stream. Il giorno dopo il ministro degli Esteri Franco Frattini rispose che non esisteva nessun malumore americano verso la nostra politica energetica. Allo stesso modo sono state regolarmente liquidate le evidenze di un fastidio dei nostri alleati per una politica estera poco «ortodossa» e troppo fuori linea.
Due fatti hanno fatto particolarmente rumore al desk europeo del Dipartimento di Stato negli ultimi anni: il primo (nel 2007) è stato il pagamento del riscatto da parte del governo Prodi per ottenere la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan, un comportamento non in linea con quello degli alleati e che scatenò le ire della diplomazia americana perché il passaggio di denaro venne reso pubblico, costituendo un pericoloso precedente.
Il secondo è stato l’atteggiamento assunto da Berlusconi durante la crisi guerra tra Russia e Georgia, quando parlò di «aggressione georgiana» mettendosi in netto contrasto con la linea della Nato. Erano ancora i tempi della Casa Bianca dell’amico George W. Bush, ma gli strascichi di quella polemica sono arrivati intatti sui tavoli della nuova Amministrazione. Dopo le battute di Berlusconi su Barack Obama (indimenticata quella sull’abbronzatura) ebbi l’occasione di chiedere un commento ad uno degli uomini più vicini al presidente americano, il quale con grande pragmatismo mi rispose: il problema non sono le battute ma quel voluminoso dossier sui rapporti tra Roma e Mosca che ci è stato lasciato in eredità al Dipartimento di Stato. Non è un caso che nella prima intervista rilasciata da David Thorne al suo arrivo a Roma, il nuovo ambasciatore statunitense disse al Corriere della Sera che «una delle più grandi preoccupazioni americane è la dipendenza energetica dell’Italia».
Era il primo avviso pubblico, dopo quelli riservati che erano stati ignorati, a cui seguirono altre pressioni sia sul governo sia sull’Eni. Ma se queste carte ci raccontano il nostro crollo di credibilità e svelano i giudizi privati dell’ambasciata e della diplomazia, sbaglieremmo a pensare che ogni cablogramma del passato possa essere la fotografia del presente. Le stesse fonti americane che per lungo tempo hanno raccontato l’irritazione dell’Amministrazione, da qualche mese segnalano un cambio di passo di Berlusconi e anche dell’Eni, sottolineando che parte delle preoccupazioni di Washington sulla rete degli oleodotti hanno trovato ascolto con l’apertura alla possibile convivenza del South Stream con il progetto Nabucco (caro agli Usa) e che è stato apprezzato il viaggio dell’amministratore delegato del colosso italiano degli idrocarburi, Paolo Scaroni, in Azerbajian.
La diplomazia americana racconta del pragmatismo di una Casa Bianca che non ha tempo di curarsi dei nostri vizi ma che ritiene che l’Italia «può avere un ruolo positivo in Medio Oriente» perché è uno dei pochi governi europei ad avere un buon rapporto con il governo di Netanyahu e con Egitto, Siria e Libano.
Così Berlusconi, sicuro di non pagare conseguenze, può farsi una risata e Frattini chiedere che nessun politico commenti, ma in rete e sui giornali di tutto il mondo resteranno quei giudizi impietosi che ci espongono al ridicolo e quella diffidenza che rende faticoso il rapporto con il più importante dei nostri alleati.
La Stampa 29.11.10