Non è uno “scoop” e neppure un altro scandalo, quello che ha investito ieri sera l’universo dei rapporti internazionali, è il “ciclone wiki” che cambierà il mondo politico che abbiamo ereditato sollevando il sudario sopra segreti finora gelosamente custoditi. Ora sappiamo cose che non avremmo mai dovuto sapere, su dittatori, regimi, governi amici, intenzioni, operazioni di spionaggio contro l’Onu, capi di governo e di stato come Sarkozy e Berlusconi.
Note sferzanti che non si sarebbero mai dovute rivelare, giudizi riservati a pochi consumatori dentro i palazzi del potere. Sappiamo che cosa pensano davvero degli altri, del governo italiano, e nulla sarà più come prima nelle cancellerie.
Non lo sarà neppure agli occhi del pubblico, che ricorderà, per averlo visto finalmente bianco su nero, che cosa ci sia davvero, quali giudizi reali corrano nel profondo dei governi anche amici dietro i sorrisi e i comunicati finali per il consumo delle telecamere. La storia della diplomazia, che è la forma nobile e pacifica anche se molto spesso bugiarda delle relazioni fra Paesi e governi da secoli prima che degeneri in guerre, deve ricominciare su basi nuove, sapendo che ci può sempre essere un paio d’occhi elettronici che guardano chi scrive, sopra le sue spalle.
Al centro del vortice sta naturalmente l’America i cui rappresentanti nelle capitali del mondo, a Roma come a Berlino, hanno visto i propri giudizi e le proprie valutazioni riservate,
perciò spesso taglienti e sferzanti come devono essere, esposte in pubblico. Questa di Washington è una capitale nel panico, in crisi di nervi ancora più di Roma, dove l’umiliazione dovrebbe essere profonda e si tenta di spiegare l’umiliazione con teoremi di oscuri complotti.
Lo shock letale di questa bufera sta nel fatto che si veda crudamente, su una scala globale che mai era stata raggiunta prima, la verità dietro i panni curiali e gli abiti da sera, spogliata da ogni formula di convenienza e di ogni ipocrisia. Era già accaduto altre volte, a pezzi e bocconi, dai documenti interni del Pentagono sul Vietnam nel 1971 ai rapporti sui finanziamenti della Cia a partiti e organizzazione italiani e sulle bustarelle della Lockheed a ministri e generali, che “Segreti di Stato” americani diventassero pubblici e scuotessero alle fondamenta governi alleati e amici.
Dagli anni del Watergate fino alla strategia della presidenza Obama in Pakistan, giornalisti e autori come Bob Woodward hanno costruito successi e reputazioni mondiali usando rapporti e analisi pensati per restare segreti. Ma il salto di quantità generato dal nuovo strumento di diffusione totale, la Rete, è diventato naturalmente “salto di qualità”. Una tempesta occasionale è divenuta un ciclone planetario, senza confini come è senza confini l’ombra della diplomazia Usa.
Tutti i governi sanno perfettamente che i giudizi pubblici, i comunicati finali, le “photo opportunity” con sorriso per le telecamere, nascondono valutazioni spesso molto diverse da quelle fornite per il consumo pubblico. A quei successi e amicizie “personali” vantate per vanagloria o per interesse, crede chi ci vuole credere e non saranno neppure centomila o un milione di comunicazioni riservate ad aprire gli occhi di chi non vuole vedere. Si dirà che sono soltanto giudizi, cose sentite dire, valutazione sommarie e personali di questo o quel funzionario.
Ma una verità è certa: questo è quanto si dicevano fra di loro, nel confessionale della diplomazia, gli americani. Come hanno detto le telefonate della disperazione che il segretario di Stato Clinton ha dovuto fare alle capitali amiche o ha scritto con tono inutilmente minaccioso il massimo consulente legale, Harold Koh, non è il giudizio su Putin, Karzai, il Pakistan, l’Arabia Saudita o Silvio Berlusconi, giudizi che tutti conoscevamo senza averne la prova, quello che getta nell’imbarazzo gli Stati Uniti, è il fatto che sia stato reso pubblico.
L’imbarazzo , anzi, la vergogna dovrebbero colpire chi si vede valutato e descritto per ciò che realmente si pensa e si sa di lui, su documenti scritti per cercare di dire la verità. I diplomatici mentono in pubblico per professione, ma sanno di dovere dire, almeno nelle democrazia, la verità ai propri superiori nei rapporti riservati.
Neppure i giganteschi casi di spionaggio militare emersi negli anni della Guerra Fredda o i progetti segretissime per aerei e armi nuove che finivano sui tavoli del Cremlino prima ancora di essere fabbricati, hanno mai raggiunto la gravità e l’umiliazione di questa tempesta di informazioni che hanno fatto parlare addirittura di “infoterrorismo” e sollevato paragoni con l’attacco dell’11 settembre.
Nel grande gioco dello spionaggio, e nel precario equilibrio della reciproca distruzione nucleare, le potenze avversarie sapevano, e accettavano, che gli “altri” conoscessero, le intenzioni, come ulteriore garanzia contro colpi di testa.
Questo, invece, è un mondo nuovo nel quale ci siamo avventurati grazie ai computer che tutto ricordano, nulla dimenticano, ma tutto possono anche essere indotti a rigurgitare, con la chiave giusta d’accesso. Il “total recall”, la memoria assoluta della Rete è la base per la “rivelazione totale”.
Un’arma letale non creata ma sfruttata da Assange e dal suo sito collettore di “raw material”, di ogni materiale informativo grezzo, che potrebbe avere affetti paradossale, spiegano i diplomatici di carriera, e generare non più verità, ma la paranoia, e dunque ancora più bugie anche in segreto. La vulnerabilità delle comunicazioni diplomatiche provocheranno inchieste. Il ciclone genererà altre tempeste surrogate. Deputati e senatori hanno già chiesto l’incriminazione di Assange e del suo WikiLeaks, commissioni, udienze teletrasmesse, soprattutto nella Camera a maggioranza anti-Obamiana che si riunirà dal prossimi gennaio. Anche questa vicenda andrà nel calderone delle accuse al Presidente. Washington offrirà uno di quei grandi spettacoli di autoflagellazione e di reciproche accuse che dopo questi eventi inesorabilmente si scatenano.
L’America, ma soprattuto i suoi finti amici pubblici disprezzati o derisi in privato sono, da oggi, un “re nudo”.
La Repubblica 29.11.10
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“Viziosi, maniaci, deboli, pericolosi” ecco i leader visti da Washington, di Federico Rampini
Da Berlusconi a Gheddafi, i ritratti “non censurati” di alleati e nemici. A molti statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti. Nelle radiografie segrete i limiti, i difetti, la caratura e le strategie dei capi. Emerge la visione di un mondo difficilmente governabile e denso di minacce
Silvio Berlusconi “politicamente debole, inefficace come leader europeo moderno”, più vicino a Vladimir Putin e Gheddafi che ad alleati come la Merkel o Netanyahu. Non è pettegolezzo, non è voyeurismo: le 250.000 comunicazioni confidenziali rivelate da Wikileaks sono un documento storico di eccezionale importanza.
Per la prima volta, suo malgrado, chi governa l’America vede rivelati i suoi giudizi integrali sui leader stranieri. Ecco come la superpotenza mondiale classifica, analizza, gerarchizza i suoi interlocutori: è uno straordinario squarcio di verità su “intelligence gathering” e “decision-making”, i due momenti-chiave – raccolta delle informazioni e processo decisionale – che guidano la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Capi di governo di nazioni sorelle, alleati di lunga data, fiancheggiano i nemici pubblici numero uno come Ahmadinejad. E’ una cornice impressionante, una sfilata di leader che nei dispacci riservati vengono vivisezionati dalla rete diplomatica, perché Washington deve sapere esattamente con chi ha a che fare. Vizi personali, difetti politici, caratura, strategie, scheletri negli armadi: ecco le radiografie top secret degli statisti, a portata di tutti.
Così Elizabeth Dibble, incaricata d’affari all’ambasciata americana a Roma, si sente in dovere di informare il Dipartimento di Stato che il presidente del Consiglio italiano per le “frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party” è affaticato
anche fisicamente, oltre a risultare “incapace”. L’informativa sulle “feste selvagge” non fa che rafforzare la preoccupazione strategica. Insospettisce gli americani la relazione troppo stretta tra il premier italiano e quello russo, Vladimir Putin, che viene descritta a base di “regali opulenti”, “lucrosi contratti energetici”, con un “intermediario-ombra”. Il risultato è che Berlusconi, nel giudizio dell’ambasciata, “appare sempre più come il portavoce di Putin” in Europa. Un ruolo allarmante, per gli Stati Uniti, che non possono tollerare il doppio gioco da un partner storico della Nato. La profonda sfiducia verso Berlusconi è tanto più grave se affiancata a quel che l’ambasciata di Mosca scrive su Putin: un “alpha-dog”, cioè capo-branco, che domina su una Russia che “virtualmente è uno Stato della mafia” . Al suo confronto il presidente Dmitri Medvedev, cioè colui che Barack Obama ha scelto come suo interlocutore (dal disarmo nucleare alle sanzioni sull’Iran), pur essendo ufficialmente di rango superiore a Putin, in realtà “è come Robin verso Batman”, cioè il cadetto, la figura più debole.
Su Gheddafi, altro personaggio cruciale nel Pantheon delle frequentazioni berlusconiane, le informazioni frugano nell’intimo. “Ipocondriaco, fa filmare i suoi controlli medici. Usa il Botox contro le rughe. Ha paura dei lunghi voli, e dei piani alti. Non può viaggiare senza avere al suo fianco l’infermiera ucraina Galyna Kolotnytska, una bionda voluttuosa”. Al punto che un volo speciale solo per la donna ucraina fu organizzato in fretta e furia per ovviare a un ritardo nella concessione del visto, in occasione dell’assemblea dell’Onu.
Ogni debolezza personale è passata ai raggi X, è materiale prezioso per guidare l’approccio dell’Amministrazione Usa verso i leader stranieri. I giudizi su Berlusconi sono eccezionalmente duri ma non per una “congiura”, visto che anche ad altri statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti. Nicolas Sarkozy ha diritto a un ritrattino poco lusinghiero: “l’imperatore nudo” lo descrivono nelle missive indirizzate a Washington, per via del “carattere permaloso, lo stile personale autoritario”, l’abitudine di sconfessare pubblicamente il suo primo ministro e altri membri del governo. In Europa si salva Angela Merkel, definita “teflon” come il materiale per le pentole dove il cibo non si attacca. Era una celebre definizione di Ronald Reagan, perché le sconfitte gli scivolavano sulla pelle. Una cancelliera “tenace quando è in difficoltà”, però anche “avversa al rischio, raramente creativa”. Più severa è la pagella sul ministro degli Esteri Westerwelle: “anti-americano e poco competente”. Ne esce comunque l’immagine di un’Europa rimpicciolita nell’attenzione e soprattutto nella stima dei leader americani. Le date dei rapporti diplomatici indicano che la marginalizzazione degli europei era già avanzata sotto l’Amministrazione Bush, prima ancora che arrivasse Obama con la sua visione rivolta all’Asia Pacifico.
Le rivelazioni su ciò che la diplomazia Usa pensa degli avversari sono importanti perché dipingono un mondo ancora più pericoloso, ingovernabile e denso di minacce, di quanto Washington non ammetta nella sfera pubblica. Il presidente Ahmadinejad è paragonato a Hitler oppure definito “un nuovo Pinochet”, della cui elezione “il popolo iraniano si pentirà amaramente”. Il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, che in questi giorni ha messo l’America di fronte a una grave crisi internazionale, è “un vecchio rimbecillito dopo l’ictus”. I leader della Cina sono “i veri mandanti del cyber-attacco contro Google”. E’ dal 2002, secondo i dispacci riservati dell’ambasciata Usa a Pechino, che provengono direttamente dal Politburo del partito comunista cinese le direttive per “una campagna coordinata di sabotaggio informatico a danno del governo americano e dei suoi alleati europei”.
Nei teatri più caldi del Medio oriente e dell’Asia centrale, gli interlocutori privilegiati di Washington si rivelano inaffidabili o peggio. Sul premier israeliano Benjamin Netanyahu il giudizio è in apparenza positivo (“elegante e seducente”), seguito però dall’osservazione che “non mantiene mai le promesse”. Ed è l’uomo su cui Obama deve appoggiare il suo dialogo di pace. Disastroso il ritratto di Ahmid Karzai, il presidente dell’Afghanistan a cui Obama dovrebbe trasferire progressivamente le responsabilità della guerra contro i talebani. “Un paranoico, circondato dalla corruzione, con un fratellastro a capo del narcotraffico”. Ieri Hillary Clinton ha passato la giornata al telefono con molti di questi capi di Stato stranieri, per ricucire le ferite aperte da Wikileaks. Ma ci vuol altro che il lavoro della diplomazia tradizionale, per rimediare a un cataclisma che ha sconvolto il ruolo stesso della diplomazia. Né basteranno in futuro nuove regole, nuovi circuiti di comunicazione, nuove barriere anti-incursioni. In questo choc bisognerà anche spiegare all’opinione pubblica americana lo scarto immenso, tra il galateo dei vertici e quel che Washington pensa davvero di amici, alleati, avversari.
La Repubblica 29.11.10