Sono quelli che salgono sui tetti. E adesso che li hai vicini, li guardi: perfettamente normali. Sono anche quelli che “però alla fine meglio precario come loro che cassintegrato come me”: gente che il treno per il Salone di Genova non l’ha mai preso, mentre c’è chi continua a tagliare i loro, pendolari nella nebbia dell’alba. Sfilano in un fiume di bandiere rosse. Cantano canzoni che hanno consumato intere generazioni. E non ne possono più.
Di Berlusconi, e ci mancherebbe: ma anche di esser costretti a ritrovarsi sempre qui, a Roma, sempre gli stessi, operai e disoccupati, studenti e precari che invecchiano, Italia povera e sempre in lotta, come se nulla cambiasse mai. In mezzo alle bandiere – della Cgil, della Fiom, dei partiti di sinistra – Bersani, Vendola e gli uomini di Di Pietro stringono mani e raccolgono incitamenti. A volte bruschi incitamenti. E’ a loro, infatti, che questo “popolo” ora chiede di fare quello che nemmeno una piazza così può fare: abbattere il governo, vincere le elezioni, farla finita con l’epopea di Silvio Berlusconi. Perché magari sarà un caso: ma mai come ieri la sovrapposizione dell’opposizione sociale sull’opposizione politica fu più perfetta. Con la sua passione e la sua forza. E con i suoi limiti. E i suoi rischi di rinsecchimento.
Dal palco del suo battesimo del fuoco, Susanna Camusso guarda piazza San Giovanni gremita e avverte: «Se il governo non è in grado di cambiare le cose, si può anche andare alle urne». C’è la Cgil, con i suoi simboli e le sue bandiere: ma non c’è la Cisl. E nemmeno la Uil. C’è il Pd, c’è Vendola e ci sono i dipietristi: ma non c’è il “centro”, lusingato e ancora corteggiato in tutte le sue facce, quella familiare di Rutelli, quella solita di Casini, quella impossibile dei “futuristi” di Gianfranco Fini. In piazza senza Cisl e Uil, al voto senza il centro. Se la fotografia di questo sabato romano non inganna, magari va a finire così.
Gli striscioni e le magliette che punteggiano la piazza tradiscono il clima d’inferno degli ultimi tempi: auguri di buona galera, volgarità su Ruby, e poi la cricca e la monnezza, le escort e le ville, quasi a far scorrere il film dell’indecente passato prossimo italiano. Tutto perfettamente vero. Rabbiosamente vero. E alla fine, addirittura pericolosamente vero. Circondato da telecamere e taccuini, Pier Luigi Bersani dice: «Nel Paese c’è una sfiducia e a volte una rabbia che non vanno bene… Bisogna rispondere dando speranza e fiducia, perché la situazione può dar luogo a tensioni anche pericolose..». Dietro il palco, dieci metri più in là, Vendola chiarisce: «Questa piazza è l’espressione dell’Italia migliore che chiede all’Italia peggiore che è barricata a Palazzo Chigi di sgombrare il campo». Poi dice: «Vedo l’esorcista Berlusconi in difficoltà».
La piazza reclama lo sciopero generale. Guglielmo Epifani l’aveva evocato prima di passar la mano alla Camusso: che un po’ frena, ma non lo smentisce. Certo, non lo rilancia. D’altra parte la questione è che uno fa uno sciopero contro qualcuno per ottenere qualcosa: e dietro il palco dell’imponente manifestazione, non c’è nessuno che accetti di scommettere sul futuro del governo. Quindi, che sciopero si fa? Un po’ confusamente, quel che vedono davanti è uno scenario più o meno così: Berlusconi che resiste e si dibatte, ma alla fine cade; gli altri che si dibattono, ma non riescono a fare un governo; un po’ di melina, poi le elezioni “e che Dio ce la mandi buona”.
Più che a Dio, toccherebbe a loro, a Bersani e a Vendola – che si abbracciano davanti ai fotografi – vedere cos’inventarsi per battere nelle urne Berlusconi. Le premesse sono come sono: per il momento manca perfino l’accordo tra loro. “Pier Luigi” continua a sperare in un patto con quelli del “centro”, convinto che senza non si vinca; “Nichi” considera il “centro” ancor meno che un luogo geometrico: un laboratorio di trasformismo e ritorno al passato. Roba da evitare, se si può. E probabilmente si potrà, perché mentre la sinistra discute del “centro”, il “centro” decide: magari di presentarsi autonomo e speranzoso alle elezioni…
Cgil senza Cisl-Uil, sinistra senza “centro”. Per le vie di Roma, è come se l’opposizione sociale facesse le prove generali per conto dell’opposizione politica. Niente male, a giudicare dal risultato. Anzi, bene. “Popolo” sufficiente a fare grande una manifestazione, difficile dire se sufficiente anche a vincere un’elezione. Per ora a piazza San Giovanni è andata così. Per il futuro si vedrà. Ma la lezione che viene da Roma è che anche la solitudine, a volte, può fare la forza. Perfino se non è una solitudine che hai scelto tu…
La Stampa 28.11.10