Otto mesi di proteste dell´università contro la legge Gelmini erano passati inosservati sui media italiani. Fino a quando una matricola ha lanciato ai professori l´idea di «fare come gli operai» e salire sul tetto della loro fabbrica, la facoltà di architettura.
In pochi giorni sulle traballanti scalette del tetto di piazza Borghese si sono arrampicati troupe televisive, inviati di giornali e celebrità varie, soprattutto cantanti, attori e politici, ammesso si trovino differenze. Soltanto nelle ultime 48 ore hanno scalato il tetto del sapere tre segretari di partito, Di Pietro, Bersani, Vendola, più una folta delegazione di finiani guidata dai deputati Della Vedova, Moroni e Granata, battezzando il luogo come laboratorio di future maggioranze di governo. Visto il successo della trovata gli studenti, gente sveglia, ieri hanno “occupato” la torre di Pisa e il Colosseo, assicurandosi così la copertura sui media internazionali.
Eppure la protesta di studenti, professori e ricercatori contro la sedicente riforma Gelmini era da subito una delle più semplice da spiegare, capire e condividere. Si tratta anzitutto di una delle più antiche e classiche forme di lotta democratica, cioè una rivolta fiscale. Negli ultimi cinque anni, forse meno, le tasse medie di uno studente dell´università pubblica sono raddoppiate, in cambio di servizi quasi azzerati dai tagli. Uno studente della Sapienza di Roma, il secondo ateneo del mondo per iscritti, paga in media dai 1200 ai 1800 euro all´anno, quasi il doppio di uno della Sorbona o di molte ottime università tedesche. Con la legge Gelmini, fatti due calcoli, le tasse sono destinate ad arrivare al doppio nei prossimi cinque anni. Quindi il nostro studente arriverà a versare ogni anno oltre 3000 euro, più di un collega californiano di Stanford. Ma invece di godere un campus paradisiaco dovrà sempre portarsi da casa il panino (la mensa è chiusa), la carta igienica e i solventi per gli esperimenti. Quale categoria non scenderebbe in piazza o salirebbe sui tetti?
Alla rivolta fiscale degli studenti, si somma la rivendicazione salariale dei docenti e soprattutto dei ricercatori. Il ministro Gelmini dice che il novanta per cento dei bilanci universitari se ne va per pagare gli stipendi ed è una percentuale unica al mondo. È vero, ma dimentica di aggiungere che è così perché tutte le altre voci, a cominciare dalla ricerca, sono state ridotte all´osso. Un ricercatore quarantenne con famiglia mi esibisce la sua busta paga, 2.200 euro al mese, «la metà di quanto mi davano dieci anni fa in Olanda, più l´affitto pagato da loro». «Con questi stipendi e i tagli sull´investimento», spiega Bartolomeo Azzaro, pro rettore della Sapienza, «stiamo uscendo dal mercato internazionale della ricerca. I nostri concorrenti non sono più Germania, Francia o Gran Bretagna, ma la Romania o la Polonia. Fra i ricercatori italiani che vincono concorsi europei ormai tre su quattro vanno all´estero e questo è un danno enorme per l´economia». Tradotto in soldoni, formare un ricercatore costa ai contribuenti 250mila euro. Secondo gli studi di settore, il ritorno allo Stato è di un milione di euro nei primi dieci anni di attività. Se il ricercatore si forma qui e poi va a lavorare all´estero, significa che lo Stato italiano spende 250 mila euro per regalare un milione ad altri, meno bisognosi per giunta. In particolare, negli ultimi anni, Germania e Francia, le uniche grandi nazioni ad aver aumentato l´investimento in cultura in tempi di crisi e guarda caso anche le prima a uscire dalla recessione.
A parte le questioni concrete, il miracolo governativo di compattare tutte le categorie universitarie si spiega con l´uso cinico di una “macchina del fango” applicata su vasta scala. Il governo Berlusconi è sempre stato abile, oltre che avvantaggiato dal dominio sui media, nel presentare operazioni lobbistiche come riforme epocali. Attraverso una specie di neo lingua orwelliana, rovesciando il significato delle parole. Ma qui si è superato il celebre limite in cui si abusa del diritto di essere fessi. Nella sintesi di Alfonso Giancotti, ricercatore di Architettura: «Dicono di volere la meritocrazia e cancellano di fatto concorsi e borse di studio. Attaccano il baronato e l´unica categoria che appoggia la riforma è la conferenza dei rettori, il Gotha dei baroni. Vogliono il ritorno all´eccellenza e mettono le basi per la chiusura di Fisica alla Sapienza, una facoltà che esprime un candidato Nobel ogni cinque anni. Parlano di autonomia e federalismo e poi trasformano i cda delle università in copie del cda Rai, con consiglieri nominati dai partiti».
Vi sono mille ragioni oltre la trovata di occupare un tetto o un monumento. Senza contare la debolezza di un governo che forse non arriverà a mangiare il panettone, ma pretende di condizionare il futuro del Paese. Lo stesso inopinato titolare dell´istruzione incarna il marasma finale del berlusconismo. Perso lo scudo del demiurgo, la Gelmini e gli altri ministri per caso, da Bondi alla Carfagna, dalla Brambilla ad Alfano, appaiono sempre di più per quello che sono, miracolati. Nel suo caso una controfigura oberata di un ruolo sproporzionato, che alla fine si sbaglia perfino sul pulsante da premere e vota contro se stessa. Rimane in piedi del berlusconismo soltanto una macchina del fango, quella che spinge l´esperto di bunga bunga Emilio Fede a invocare i manganelli o il presidente del Senato a evocare il fantasma degli anni di piombo quando dieci studenti armati di scudi di polistirolo e mezza dozzina di uova marce s´affacciano al Senato. Ma se è con questi trucchi che intendono fermare la protesta di una generazione derubata di futuro, allora hanno proprio sbagliato i calcoli.
La Repubblica 26.11.10