Ci sono molte buone ragioni per riformare l´università italiana. Razionalizzare la frammentazione di corsi di laurea, facoltà, materie, che spesso corrisponde solo a logiche vuoi corporative, vuoi territoriali. Premiare il merito delle università sia nel campo della ricerca che in quello della qualità didattica. Reclutare i docenti con criteri che valutino la competenza e la congruità ai bisogni della facoltà che chiama, e non l´appartenenza a consorterie varie, o l´anzianità di servizio o di pazienza nello stare in coda.
Istituire percorsi di carriera chiari nei passaggi, nei doveri e nelle ricompense, rovesciando la situazione attuale per cui spesso capita che i ricercatori, o perfino gli assegnisti o varie figure precarie, abbiano maggiori carichi didattici degli ordinari, essendo pagati molto meno e mangiandosi così il tempo necessario per ricerca e pubblicazioni. Fornire agli studenti spazi e relazioni didattiche di qualità, in cambio chiedendo anche a loro maggiore assunzione di responsabilità nei percorsi di studio, riducendo, se non eliminando del tutto, la possibilità di rimanere parcheggiati indefinitamente. L´elenco è lungo. Purtroppo, però, negli ultimi anni, a partire dalla riforma di Berlinguer, sull´università italiana si sono succedute riforme più o meno ben intenzionate, che hanno occupato migliaia di ore e di defatiganti negoziazioni per essere messe a punto, solo per essere distrutte dal ministro successivo. Si è molto parlato di merito e di valutazione, ma né il sistema di finanziamento né quello di reclutamento sono realmente mutati in questa direzione.
Certo, i professori, specialmente gli ordinari, come categoria, hanno le loro gravi responsabilità, sia per quanto attiene alla frammentazione delle facoltà, delle sedi e dei corsi, sia per quanto attiene a un sistema di reclutamento troppo spesso senza qualità. Anche i concorsi universitari più recenti, fatti con il nuovo sistema introdotto dal ministro Gelmini, hanno mostrato in più di un caso la capacità delle corporazioni di produrre risultati che poco hanno a che fare con il merito e molto con le appartenenze. Ma altrettanta responsabilità hanno i ministri, che non hanno saputo o voluto mettere in campo meccanismi premianti e viceversa disincentivanti, invece scrivendo riforme che non solo cancellano quelle precedenti per pura voglia di lasciare un segno, ma prescindono dal contesto su cui arrivano e dalle risorse disponibili.
La riforma Gelmini da questo punto di vista è esemplare. Dice di voler premiare il merito, ma, dopo aver operato un taglio robusto ai finanziamenti, distribuisce in base al merito solo il 7% del finanziamento rimasto. Certamente un incentivo largamente insufficiente ad assumere con attenzione alla qualità scientifica all´interno del nuovo sistema di reclutamento. Istituisce la figura del ricercatore a tempo, in analogia a quando avviene nella maggior parte dei paesi europei (ma non tutti) e negli Usa, ma non fornisce alcuna garanzia che i concorsi per entrare nelle posizioni successive avverranno effettivamente con cadenza regolare, con il rischio di creare una massa di precari che poi inevitabilmente premerà per qualche ope legis. Dice di voler invertire la fuga dei cervelli, ma i ricercatori italiani sono tra i peggio pagati nel mondo sviluppato (e il blocco degli scatti biennali si scarica in modo particolarmente duro su di loro) e i fondi per la ricerca sono miserandi. Ricordo che i ricercatori italiani sono tra i meno pagati in Europa. Dice di essere dalla parte degli studenti, ma taglia le borse di studio, dopo che il taglio ai finanziamenti ha già ridotto la qualità delle prestazioni delle università. Il fondo che finanzia le borse di studio scenderà infatti da 96 milioni di euro nel 2010 a 70 nel 2011, tornando ai livelli del 1998. Ciò non è compensato da altri interventi per il diritto allo studio: alloggi, spazi di studio e così via rimangono in Italia una risorsa risicata, anche se con ampie variazioni. Peraltro, ciò è in contraddizione con la riduzione delle sedi universitarie. Se, come è opportuno, si auspica una maggiore mobilità degli studenti, occorre anche prevedere i servizi e i sostegni necessari, altrimenti la frequenza all´università ridiventerà una chimera per chi non vive in una sede universitaria e non ha genitori abbienti.
Tra gli studenti che protestano ci sarà sicuramente chi vorrebbe un´università che promuova senza chiedere troppo in cambio e che più che alla qualità dell´istruzione che riceve sia interessato ad averla al più basso costo – finanziario e di investimento – possibile. Ed è anche possibile, anzi probabile, che qualche docente utilizzi il malcontento di studenti e ricercatori per la riduzione delle risorse e delle prospettive future per nascondere le proprie responsabilità individuali e collettive. Così come è inevitabile che i partiti di opposizione cavalchino la situazione.
Purtroppo lo spazio pubblico per un confronto anche duro, ma teso a ridefinire obiettivi, responsabilità, costruire percorsi condivisi di riforma sembra inevitabilmente eroso. Siamo di fronte alla progressiva delegittimazione dell´università e della ricerca pubbliche in Italia, sulla pelle delle nuove generazioni, che di questo dovrebbero innanzitutto preoccuparsi, e del futuro della nostra società. Il governo e il suo ministro non ne portano per intero la responsabilità. Ma vi hanno molto contribuito, sia con lo stile prepotente delle argomentazioni che con la faciloneria con cui sono stati affrontati i diversi nodi, che infine per il sistematico disprezzo mostrato per chi lavora nell´università e per l´università come istituzione, proprio in un paese in cui ricerca e cultura hanno pochi sostenitori, soprattutto nel mondo delle imprese spesso portato ad esempio.
In Francia e Germania, per nominare solo due paesi, a fronte della crisi economica, scuola, università, ricerca sono stati considerati investimenti prioritari, non solo da salvaguardare, ma da rafforzare.
La Repubblica 25.11.10