Nel giorno in cui il mondo dello spettacolo scende in piazza contro i tagli alla Finanziaria, vorremmo parlare in maniera corretta. Non siamo un esercito di sfaccendati privilegiati ma un esercito di 250.000 lavoratori che di audiovisivo vive e che attraverso il suo lavoro alimenta l’immaginario di un paese. Quella visione fasulla e pretestuosa è stata sostituita dalle parole e dalle richieste che proponiamo da tempo, quasi che fossimo riusciti a generare una visione del cinema italiano che «suona» bene e che è giusta per chi conosce ed ama il nostro lavoro. Abbiamo ascoltato promesse per il rinnovo degli incentivi fiscali e del FUS, promesse per cui ci batteremo affinchè siano mantenute, ma crediamo ci dovrà essere anche dell’altro se non vogliamo ritrovarci tra un anno nelle stesse piazze ad urlare gli stessi slogan. Mi piacerebbe sottolineare solo tre argomenti a cui teniamo particolarmente.
Primo punto: non vogliamo più essere connessi alla poltica e soprattutto al giudizio dei governi, qualsiasi essi siano. Siamo disposti ad un profondo ripensamento del sistema di finanziamento pubblico del cinema, ma solo dopo aver approvato una legge di sistema che regolamenti una volta per tutte i rapporti tra tutta la filiera di chi produce, distribuisce, usa l’audiovisivo. Una legge che permetta al cinema di camminare da solo indipendentemente da umori e tendenze dei poltici del momento. Per questo crediamo che il sistema si debba finanziare prevalentemente da solo. Siamo disposti a fare la nostra parte nella definizione di criteri giusti e lungimiranti. Secondo punto: delocalizzazione. Oggi molte produzioni tv sono girate all’estero, col paradosso che il denaro del canone Rai viene speso in altri paesi, soprattutto dell’Est Europa per questioni di risparmio. Questo si traduce in minori giornate di lavoro per troupes italiane, tecniche ed artistiche, che quest’anno hanno realizzato il 50% in meno di giornate lavorative, e in minori entrate fiscali per lo stato.
Terzo punto: Cinecittà ed il Centro Sperimentale siano rimessi in condizione di essere l’eccellenza nella produzione e nell’insegnamento cinematografici. E venga inserito il cinema come materia di studio della nostra storia.
A volte percepisco una – forse involontaria – contrapposizione tra necessità inderogabili – come quella della ricostruzione de L’Aquila – e le nostre. Come se si dovesse scegliere una priorità: costruire le case o costruire nuova cultura? Ecco, io credo che le due cose non dovrebbero essere in contrapposizione. Giusto e prioritario amministrare le emergenze nella maniera più efficace. Ma altrettanto giusto è immaginare la rinascita di una città che parta dall’elemento più importante. La sua piazza. Una volta che ci si renderà conto che cultura, piazza, socialità, conoscenza, scuola, ricerca, sport, musica, sono gli antidoti più potenti all’infelicità, credo si smetterà di pensare in contrapposizione al pane e alle rose. Abbiamo bisogno di tutte e due. Questo paese ha una vitale necessità di «anima», è un paese che non sa più di poter formulare una pretesa: quella di essere felice. Se la classe politica se ne rendesse conto, proporrebbe all’Italia un sogno di cui tutti abbiamo necessità. In cambio non otterrebbe solo consenso, ma anche riconoscenza.
* Regista di «La nostra vita» premiato a Cannes
La Stampa 22.11.10