Anche noi addetti ai lavori, malati di politica, quasi non ci raccapezziamo più dentro una crisi oscura e dagli esiti incerti. Per non smarrire totalmente la bussola merita fissare tre elementi utili a un giudizio.
Il primo è di natura morale prima ancora che politico.
Oserei dire etico e persino estetico. Si può ancora chiamare in causa la morale in sede politica senza essere tacciati di moralismo? Alludo ovviamente allo spettacolo indegno della compravendita di parlamentari. Perché di questo manifestamente si tratta. Non c’entra nulla il nobile, liberale principio della non imperatività del mandato fissato in Costituzione. Neppure c’entra la politica, come quando un partito o un gruppo, in corso di legislatura e dentro una democrazia parlamentare, decide di entrare o di uscire dalla maggioranza che sostiene un governo. Devono esserci ragioni buone e forti per mutare collocazione rispetto a quella a suo tempo proposta ai cittadini elettori e “consacrata” dal loro mandato. Ma non si può escludere che il tempo e le situazioni possano prescrivere una decisione pur così impegnativa. Fa parte di quell’indice di flessibilità del sistema che rappresenta uno dei pregi della democrazia parlamentare. Ma lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni è altra cosa. Non a caso i nomi che ricorrono, oggetto di corteggiamenti e di lusinghe, in buona parte sono sempre gli stessi. Veri e propri professionisti del mercimonio politico.
Vogliamo dirla tutta? Il barometro cambia quasi ogni ora: a questa ora (tra un’ora non so), Berlusconi, che pareva votato a soccombere, ha ripreso il suo preminente potere attrattivo. Lui dispone di mezzi ingentissimi di varia natura, economici e di potere. Come dimenticare – sono state aperte indagini giudiziarie sul punto – che sulla caduta di entrambi i governi Prodi, nel 1998 e nel 2008, aleggia a dir poco l’ombra del mercimonio? Ma, per essere sinceri con noi stessi, dobbiamo confessare che quando, nelle scorse settimane, si dava per probabile l’ipotesi di un governo tecnico a valle della sfiducia a Berlusconi, anche dalle nostre parti, al senato si faceva affidamento su qualche transfuga dalla destra, attratto dal mero calcolo della sopravvivenza della legislatura e dunque della propria. Non il massimo del buon esempio, specie in un tempo in cui spira impetuoso il vento dell’antipolitica.
Il secondo spunto di riflessione è genuinamente politico e riguarda Fini. Abbiamo apprezzato la sua battaglia per una destra democratica e costituzionale, gli abbiamo giustamente offerto una sponda con il proposito di propiziare la crisi del governo e soprattutto la chiusura della lunga stagione politica posta sotto il segno del populismo berlusconiano. Ma, per amore di verità, non possiamo tacere alcune vistose contraddizioni: le innegabili forzature istituzionali connesse al suo doppio ruolo di presidente della Camera e di leader politico artefice di uno strappo; ma soprattutto la responsabilità di un lungo connubio nel quale è difficile credere che Fini e i suoi non avessero inteso che Berlusconi è Berlusconi, lui sì sempre coerente con sé stesso: in tema di legalità, di concezione della democrazia, di idea del partito, di conflitto di interessi. Solo ora Fini ha misurato su di sé la virulenza corrosiva delle campagne comunicative, il vero e proprio killeraggio condotto dai media di famiglia del premier, ma egli dovrebbe considerare che, quel trattamento, è stato sistematicamente adottato contro gli avversari politici e Fini è tra coloro che a lungo ne ha tratto vantaggio senza battere ciglio. Sarebbe lecito chiedergli un’aperta, pubblica autocritica a proposito di quel che rappresenta assai più che un semplice errore, oserei dire una corresponsabilità storico-politica. Sul punto il discorso andrebbe esteso a Casini. Entrambi oggi formulano su Berlusconi e sul berlusconismo un giudizio che quasi coincide con il nostro. Con la piccola differenza che noi lo abbiamo sempre contrastato e che loro ci hanno a lungo e organicamente cooperato. Di più (su questo il risentimento del Cavaliere vanta qualche ragione): senza Berlusconi i due sarebbero stati politicamente ai margini o addirittura scomparsi.
Infine, la terza osservazione, anch’essa politica e che riguarda noi. È francamente ingeneroso chi si accanisce sul Pd denunciandone la relativa marginalità dentro una crisi i cui attori-protagonisti stanno altrove: appunto, nell’ordine, Fini e Casini. Era ed è nelle cose. Così pure penso che siano state ragionevoli e giuste le due scelte recenti del Pd: il no alle elezioni subito con la proposta di un governo di transizione e l’ipotesi, nel caso si precipitasse verso elezioni ove la posta in gioco fosse la rottura costituzionale con il corollario di Berlusconi al Quirinale, di un’alleanza larga di stampo democratico-costituzionale quale risposta emergenziale a una situazione di oggettiva emergenza, per una legislatura, magari non intera, ma atta a riscrivere le regole della competizione politica dentro una “democrazia normale”. Tuttavia ora dobbiamo prendere atto di quanto siano improbabili quegli esiti. Perché Fini sta facendo un mezzo passo indietro e comunque ha chiarito che il perimetro della sua azione è tutto interno al centrodestra. Al più, se obbligato da elezioni ravvicinate, orientato a convergere su terzo polo centista. E perché Casini, a breve, non esclude un Berlusconi bis per noi irricevibile; nel medio periodo, in caso di elezioni, mira a capeggiare un polo centrista; a lungo termine, nel dopo-Berlusconi, anch’egli investe su un nuovo centrodestra finalmente “normale”.
Conclusione: con il cerino in mano, non della crisi ma della strategia politica, che conta di più, rischia di restare il Pd. Esaurita questa fase di necessità consegnata alla tattica, urge che il Pd si applichi alla strategia che, naturalmente, a monte, ripropone la questione basica della sua identità e missione dentro il sistema politico italiano. Si tratta di costruire il cantiere di una nitida alternativa al centrodestra di oggi e di domani. Per quel che mi riguarda, mi atterrei alla rotta fissata a settembre da Bersani: un nuovo centrosinistra imperniato su un nuovo Ulivo proposto alle forze che hanno fatto una esplicita scelta di campo e con le quali stringere un rapporto impegnativo e di lunga lena. Con le autocorrezioni necessarie e stringenti regole di convivenza. Poi il nuovo Ulivo potrà e dovrà proporre alle forze centriste un patto di governo per la prossima legislatura. Ma consapevole che esse, al momento, pensano ad altro.
Non è saggio tutto scommettere sul rapporto con chi dichiaratamente coltiva una prospettiva strategica altra e diversa dalla nostra.
da Europa Quotidiano 20.11.10