Le idee di Daniel Pennac, tra i promotori dell´iniziativa
Il bambino Daniel Pennac, quanti brutti voti. «Io sono stato un alunno con enormi problemi. E molte inibizioni me le porto dietro ancora oggi. Ma ho incontrato dei professori che mi hanno salvato. Sono stati quelli che mi volevano conoscere e volevano che mi appassionassi alla loro materia. Non quelli che volevano valutarmi, mettermi un voto».
Lo ha raccontato in Diario di scuola, un libro che è stato messo in scena anche in Italia dal Teatro dell´Archivolto.
«È un testo sulla paura. La paura che prende l´alunno che entra in una scuola. La paura di non saper rispondere bene alle domande che gli farà un adulto. Questa paura si ripete, e genera la vergogna nell´allievo: il ragazzo si fa prendere dalla rabbia. Un furore insopportabile che meccanicamente tira fuori: contro il professore, contro sé stesso, contro i genitori».
Come un effetto domino.
«I genitori fanno loro questa paura. E la proiettano, aggravando quella presente. Oggi è così, ma domani sarà peggio: questo si dicono. Nonostante il futuro sia in realtà imprevedibile. Il padre se la prende con la compagna: è colpa tua perché non lo educhi come si deve, mentre io devo pensare al nostro avvenire. La madre si sente due volte colpevole».
E l´insegnante?
«L´insegnante deve riuscire a comunicare con l´allievo in quel preciso momento. E basta. Deve stare con lui. Ma non può farlo, se attraverso la valutazione genera un meccanismo di paura, di sospetto. Così finisce per perdere il ragazzo e per perdersi lui stesso: non è più là, in quel momento, perché sta già pensando di non esserci più. È la paura preventiva».
Che condiziona tutta la società.
«Abbiamo un mito moderno. L´immagine. Io allievo, io insegnante, io scrittore e giornalista che intervisto lo scrittore. Tutti temiamo la valutazione, perché vogliamo salvaguardare la nostra immagine. Allora vale la pena di partire dalla scuola: che deve formare, non formattare. Che deve formare persone intelligenti, e non clienti. La scuola pubblica e non quella privata, che è una vittoria sfacciata della società consumistica. Basta con la scuola che forma clienti, e certe università-chic che formano venditori».
Comincia tutto con le interrogazioni.
«L´interrogazione genera il sospetto. Le domande sono legate alla capacità dell´altro di comprendere. Le faccio per valutare chi mi sta di fronte, non per conoscerlo. Il sospetto è non credere più alla presunta immagine che ho di me stesso. Invece io devo prendere la domanda per quello che è. Devo avere la forza di rispondere: “Non ne so nulla”, perché so che il mio interlocutore non mi valuterà. Perché non mi darà un voto».
Meno voti, più buoni insegnanti.
«Ma è pieno di buoni professori. Sono quelli che hanno interesse per la materia che insegnano, e che hanno il desiderio di trasmettere la loro passione. Risvegliando la coscienza dei bisogni fondamentali, avvicinandoli alla solitudine e alla riflessione gratuita, sviluppando una capacità critica verso una società che vuole sempre più clienti e meno persone intelligenti. In Francia ci sono 12 milioni di studenti e un milione di insegnanti. A quel milione si chiede di essere eccezionale, ma non è possibile. Però, ogni studente può trovare un professore eccezionale. Perché è pieno, di buoni insegnanti. In Francia, in Italia. Di giovani straordinari, che fanno il loro lavoro. Normalmente».
La Republblica 19.11.10
******
“In Francia Daniel Pennac ne chiede l´abolizione alle elementari. In Italia è stato reintrodotto. Ma il tema divide maestri, genitori e pedagogisti”, di VERA SCHIAVAZZI
Basta con i 4 e i 5 alla scuola elementare, meglio giudizi che «non umiliano» i bambini, troppo piccoli per reggere stress e competizione. L´appello arriva dalla Francia (lo hanno già firmato scrittori come Daniel Pennac, politici come l´ex primo ministro Michel Rocard, psichiatri come Boris Cyrulnik), il Nouvel Observateur lo ha pubblicato integralmente e in rete giungono centinaia di adesioni di insegnanti e genitori. Ma la notizia che giunge da Parigi è un balsamo per il vasto e eterogeneo fronte degli oppositori italiani di Mariastella Gelmini, il ministro che due anni fa reintrodusse il voto numerico alle elementari dopo oltre trent´anni dalla sua non rimpianta scomparsa.
«L´ossessione della classifica (al voto in ventesimi, in Francia, si accompagna come negli Stati Uniti la graduatoria dell´intera classe, ndr) crea una fortissima pressione e discrimina gli allievi, è contraria al principio dell´égalité», hanno scritto gli intellettuali sfavorevoli al voto, ai quali il ministro Luc Chatel ha già risposto ribadendo di volerlo mantenere. Ma quel numeretto, magari scritto con la penna rossa, sulle prime e incerte prove di conto e di scrittura di piccolini di sei o sette anni non è mai piaciuto neppure ai pedagogisti più esperti e moderati, come Giorgio Chiosso, docente all´Università di Torino e membro del board della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, che ogni anno analizza e sostiene centinaia di progetti per migliorare gli standard formativi nel ciclo dell´obbligo.
«Sono sempre stato perplesso sulla decisione di reintrodurre i voti – spiega Chiosso, che in passato è stato consulente delle riforme scolastiche proposte da diversi ministri – L´obiettivo della scuola elementare non è certo quello di discriminare, ma di promuovere. La valutazione non si può abolire, perché serve a bambini e genitori a stabilire un rapporto con la realtà, ma parlare di “merito” a 6 o 8 anni non ha molto senso». C´è però un altro lato della medaglia: «L´Italia, nonostante avesse abolito i voti fin dal 1977, non si è mai davvero abituata al sistema dei giudizi – spiega Chiosso – tanto è vero che io stesso sono stato più volte interpellato per preparare “tabelle di conversione”. La scuola è andata avanti esprimendosi in un linguaggio esoterico, con formule misteriose difficili da interpretare». La legge che, nel 2008/2009, ha fatto riapparire come per incanto i voti numerici fin dai primi anni di scuola venne accolta, non appena approvata, da un coro di proteste: contrari i dirigenti scolastici, contrari gli studiosi e gli analisti dei diversi sistemi scolastici, più propensi ad usare invece i “livelli” stabiliti dall´Ocse, l´organizzazione mondiale per lo sviluppo economico, ritenuti più oggettivi e in grado di far progredire non solo i singoli ma l´intero sistema. Poche le voci fuori dal coro, come quella della scrittrice Paola Mastrocola, autrice di duri pamphlet contro il “buonismo” italiano (La scuola raccontata al mio cane, Guanda, 2004). «Sono stata e sono favorevolissima ai voti, che sono più chiari, più trasparenti, più democratici e meno ipocriti dei giudizi che li hanno preceduti – dice Mastrocola – Grazie al voto, i bambini si abituano a distinguere tra una cosa fatta bene e un´altra che non lo è. E capiscono benissimo, così come recepiscono il senso della sfida: oggi ho preso 4, ma domani potrei prendere 8 se raggiungerò questi obiettivi». Umiliazioni? Stress? Fobia da scuola? «Perché un´insufficienza dovrebbe umiliare? Certo, anche i genitori non devono percepirla in questo modo, né commettere l´errore, purtroppo sempre più frequente, di far capire ai figli che è l´insegnante a essere cattivo o in torto». Il problema dei criteri di valutazione appassiona esperti di tutto il mondo: negli Stati Uniti si usano le lettere, in Romania i giudizi, in Germania voti dall´1 all´8, mentre proprio l´Ocse ha fissato in 6 diversi livelli i gradi di apprendimento di bambini e ragazzi, elaborando tabelle a prova di simpatie e antipatie personali. Ma se è vero che bocciare un bambino alle elementari è (quasi) impossibile, è vero anche che classificare i più piccoli con dei semplici numeri potrebbe impedire di aiutarli a crescere, rinunciando così al compito sociale e educativo proprio di un´istituzione che non a caso ha scelto di essere obbligatoria.
«Parliamoci chiaro – dice Domenico Pantaleo, segretario nazionale della Cgil Scuola – i voti numerici rappresentano per i docenti un risparmio di tempo e di fatica. Ciò nonostante, come sindacato, siamo contrari. Pensiamo che a essere valutata non debba essere la singola prova di ogni bambino, ma il successo formativo del gruppo, della scuola stessa. E che aiutare i singoli a superare le proprie difficoltà debba essere un obiettivo condiviso, e affidato alla professionalità e alla capacità di giudizio anche personale dei docenti». L´”aiutino” per alzare il voto, del resto, è previsto in Italia da fior di circolari ministeriali sui cosiddetti “incrementi”, gli stessi che consentono di promuovere chi ha 5. Ma qual è il giusto equilibrio tra l´ansia delle madri e dei padri, le paure dei bambini (il 34 per cento, secondo una ricerca francese, ha accusato almeno una volta, durante le elementari, il classico “mal di pancia da scuola”), l´esigenza di migliorare il livello qualitativo della scuola e il vento nostalgico che, a tratti, soffia sull´Europa? In Finlandia, paese al primo posto nella classifiche europee sulla scuola, alle elementari si usano le faccine: sorriso o tristezza per informare sull´andamento scolastico, insomma, lo stesso metodo che il ministro Renato Brunetta ha proposto per esprimere il gradimento dei cittadini sugli sportelli pubblici. L´investimento sul ciclo dell´obbligo (da sempre fino ai 16 anni) del paese nordico è 12 volte superiore a quello italiano, mentre le statistiche nostrane rivelano come i voti tendano ad alzarsi nelle zone dove le difficoltà sociali e culturali di base degli allievi sono più forti. Si boccia di più nei grandi licei del Nord che negli ex istituti professionali del Sud, insomma, mentre anche nella scuola dell´obbligo la valutazione finale è più generosa in Campania e in Calabria, meno in Piemonte, Lombardia e Veneto. E se in Francia l´appello della “gauche” intellettuale e liberale sembra destinato a non essere accolto dal governo Sarkozy, ma avrà senz´altro il merito di costringere a una riflessione su un sistema scolastico fortemente meritocratico e centralizzato, in Italia il “numeretto” resuscitato da Gelmini sembra destinato a restare. Tanto più, come ha precisato nella circolare applicativa lo stesso ministro, i docenti che lo desiderano possono continuare a scriverci accanto anche i giudizi.
La Repubblica 19.11.10