E se dovessimo ancora farlo, il Risorgimento? Contro Bossi, che lavora per dividere l´Italia imputando al Sud lo Stato che dal Nord è nato. Contro i “neoterroni”, che gli forniscono alimento immaginando un´altra Cassa del Mezzogiorno, un partito del Sud. Contro la riforma della Gelmini, che concentra nella scuola a cui si deve l´unità d´Italia i più vieti e rancorosi luoghi comuni antiunitari.
A partire da Gramsci, tutti gli storici hanno raccontato il Risorgimento come il piccolo movimento militare di un grande gioco internazionale, alla fine del quale i contadini del sud diventarono briganti, periferia senza storia e senza patria e dunque illegale e mafiosa; la Lombardia, che era europea, fu annessa al Piemonte; le altre realtà statali furono unificate con un artifizio da un gruppo di notabili che parlavano francese. L´Italia che ne nacque fu, per tre quarti di secolo, malata: a Nord infestata da pellagrosi e cretinici per via della dieta a base di mais, al sud da contadini devastati da quella malaria che uccise anche Cavour. Nel 1882 il senatore Luigi Torelli imputò il dilagare della malattia – pensate – all´espansione delle ferrovie: «Ci sono troppi ristagni d´acqua negli scavi laterali alle strade ferrate!». Anche il pessimismo verghiano, da cui discenderanno a catena Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa e Sciascia, ha il filo conduttore nella malaria «che vi entra nelle ossa col pane, e se aprite la bocca per parlare, e mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e sole…».
E sono tutte controverse le figure del Risorgimento, che fu passione letteraria e non interesse sociale, mentre è unitaria l´idea antiunitaria di «Roma ladrona», vecchia pulsione vandeana e semplificatoria, la stessa che ispirava il qualunquista Giannini e a sinistra divenne «capitale corrotta / nazione infetta», sino a «la vera mafia sta a Roma». Ed è bene ricordare l´omelia ai funerali del generale Dalla Chiesa: «Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur».
Possiamo fare un Risorgimento? Ci siamo uniti soprattutto costruendo una scuola contro il regionalismo, i dialetti, le culture premoderne e localistiche, contro il delitto d´onore, contro la “mafia Robin Hood”… Avevamo storie separate rispetto a quella cosa fragile che era la nazione. Ed è vero che il federalismo, ideale risorgimentale, avrebbe potuto unirci in maniera più intelligente invece di disunirci in maniera stupida come ora vuole Bossi. Ma se l´Unità l´abbiamo fatta a scuola è a scuola che dobbiamo cominciare a rifarla. Invece il governo ha coltivato il pregiudizio razzista dello studente meridionale ignorante e raccomandato, e del professore terrone che va cacciato dal Nord perché «dequalificato», «non conosce la matematica», «non parla il dialetto della regione dove insegna». E il ministro Brunetta vorrebbe guidare una spedizione garibaldina: mille fantuttoni del Nord contro i fannulloni del Sud. Sottocultura? Folclore? O magari quella onagrocrazia di cui parlava Croce, il potere dei somari.
Ecco: la scuola può ridefinire l´identità italiana, adattare storia, geografia, lingua e religione nell´epoca delle migrazioni. Risorgimento significherebbe edifici scolastici, strumenti di didattica, nuovi stipendi e strategie formative, aprirsi al mondo per restare nel mondo. A che servono le cerimonie se il governo lavora – non ci stancheremo di denunziarlo – per una scuola parteno-siculo-borbonica, un´altra brianzola-austriacante e una papalina-tiberina? Solo la scuola riformata e unitaria può dirozzare leghisti e sicilianisti. E bocciarli.
La Repubblica 18.11.10