Senza i ministri di Futuro e libertà, il governo Berlusconi ormai somiglia al visconte dimezzato di Italo Calvino. Sarà per questo che cerca di tagliare il problema in due come una mela: mezza fiducia (quella del Senato), mezza crisi (magari un rimpasto può bastare), e in ultimo mezze elezioni (facendo rivotare gli italiani solo per la Camera). C’è una logica in queste mezze trovate? Ce n’è metà, e dunque non ce n’è nessuna.
Primo: la mezza fiducia. Se il Senato la concede, mezzo governo è salvo. E l’altro mezzo? Affonda nel pozzo della crisi, se e quando la Camera gli vota la sfiducia. Ma c’è spazio nel nostro ordinamento per un governo dimezzato? Solo a patto di scambiare il due con l’uno. Il bicameralismo, l’esistenza di due Camere gemelle, è un po’ come il matrimonio: per sposarsi bisogna essere d’accordo in due, per divorziare basta che lo decida uno. Ecco perché se una Camera respinge un progetto di legge posto in votazione, a quel punto il procedimento s’interrompe, anche se l’altra Camera l’avrebbe approvato a spron battuto. Ed ecco perché basta un solo voto di sfiducia per far cadere la compagine ministeriale: nessun governo è mai stato sfiduciato da ambedue le assemblee parlamentari.
La gara a chi voterà per prima la fiducia (o la sfiducia) al gabinetto Berlusconi cozza con la logica, o meglio con la matematica: se ho bisogno di due sì ma prevedo d’incassare un no, non ha alcun rilievo l’ordine dei voti. E comunque i precedenti (10 su 11) danno la priorità alla Camera.
Secondo: il «rimpastino» come tampone della crisi, come espediente per evitare che divampi. In astratto è praticabile, e d’altronde nei suoi cinque semestri di governo Berlusconi ha già sostituito una folla di ministri, viceministri, sottosegretari. In concreto la via è tutta in salita, perché senza Fli non c’è più maggioranza. Anche se quel partito aveva un solo generale (Andrea Ronchi) tra i banchi dell’esecutivo, anche se la sua forza elettorale rimane tutta da verificare. Nel novembre 1987, per esempio, a dimettersi fu l’unico ministro (Zanone) del partito liberale, che a sua volta rappresentava appena il 2% dell’elettorato, benché a guidarlo fosse un segretario che si chiamava Altissimo; e il Premier dell’epoca (Goria) un minuto dopo rassegnò le dimissioni del governo.
Terzo: le mezze elezioni. Se Berlusconi ci tiene così tanto a mettersi anzitutto in tasca l’appoggio del Senato, è per porre i deputati dinanzi a un altolà: volete sciogliere il governo? E allora il governo scioglierà la Camera. Un’eventualità – di nuovo – praticabile in astratto, irragionevole in concreto.
Intanto, se poi uscisse dalle urne una maggioranza ostile al gabinetto Berlusconi, per coerenza dovremmo sciogliere anche quest’altra Camera, o in alternativa sciogliere il corpo elettorale. In secondo luogo, perché mai non potremmo viceversa mandare a casa i senatori? Il (mezzo) ragionamento del presidente del Consiglio è infatti perfettamente rovesciabile: se la Camera dei Deputati gli voterà contro è perché da quelle parti si sarà formata una diversa coalizione, e non c’è ragione di privilegiare l’una o l’altra maggioranza. In ultimo, lo scioglimento anticipato d’un solo ramo del Parlamento implica per il futuro uno sfasamento temporale delle due assemblee legislative, dunque elezioni ogni due anni, e ogni due anni una crisi di governo. E allora per quale motivo la nostra Carta lo consente? Per casi – davvero – eccezionali. Per esempio di fronte a un’assemblea dominata da partiti antisistema, oppure infarcita di briganti, o altrimenti secessionista, golpista, piduista. Ma non è questo lo scenario d’oggi (sul domani, non ci giureremmo).
E c’è infine un presupposto indispensabile, per mandare a squadro questa mezza strategia: un mezzo presidente. Spetta infatti al Capo dello Stato officiare le crisi di governo, e sempre a lui spetta la decisione estrema, quella di sciogliere le Camere o al limite una sola. Se il governo pretende di dettargli le proprie decisioni, significa che ha letto mezza Costituzione. L’altra metà deve ancora studiarla.
La Stampa 16.11.10