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"Il disprezzo delle regole e del merito", di Walter Passerini

Vi sono 52 modi per chiedere un permesso e per autorizzare un’assenza sui luoghi di lavoro, ma nessuno di essi è stato utilizzato nei casi che la cronaca ha portato alla ribalta a Brindisi, Caserta e Perugia. Anzi, la formula più gettonata è la numero 53, la regola che non c’è e la più praticata, che dall’autorità giudiziaria viene rubricata come truffa, danno erariale e grave rottura della clausola della fiducia.

Non siamo di fronte a quello che gli esperti chiamano micro-assenteismo, assenteismo fisiologico, solitamente inferiore al 3-4%, tutto sommato sostenibile. Ma nel caso dei fatti di cronaca citati è evidente la truffa ai danni della pubblica amministrazione. Ma se non vogliamo sparare sulla solita croce rossa, non è solo un problema di pubblico impiego.

Anche se gli ultimi dati dell’Ocse ci dicono che il costo dell’assenteismo è di 2,5 volte superiore al costi dei sussidi di disoccupazione, in questi mesi di crisi l’assenteismo, soprattutto nel privato, si è ridotto in modo significativo, per la paura di perdere il posto di lavoro, per l’ansia di tenere la situazione sotto controllo, perché esserci di persona è sempre meglio che non esserci, soprattutto se non ve ne è alcuna ragione. È così che vengono segnalati problemi anche opposti, di presenteismo, l’altra faccia delle assenze ingiustificate, che abbassa gli stessi indici di produttività e si traduce paradossalmente in un danno per le stesse imprese. L’essere presente non sempre coincide con una prestazione performante.

Le indagini Eurofound-Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro segnalano tassi di assenze medi dal 3% al 6%, una quota del 2,5% sul Pil dei 27 Paesi europei. Ma mettono in luce anche possibili rimedi. Per esempio, l’utilità di orari flessibili concordati, una maggior trasparenza nei permessi per visite mediche e malattie di congiunti, figli, familiari disabili, una gestione degli orari basata sulle banche delle ore, che modulano i tempi di lavoro durante l’arco di un anno o di una quota superiore della vita di lavoro, ma soprattutto una politica più attenta nella gestione delle risorse umane, basata sul coinvolgimento e la motivazione.

Tutte le indagini sottolineano anche, insieme alla presenza di maggiori controlli, le controindicazioni di atteggiamenti stupidamente vessatori, che creano solo ritorsioni e anomie, per puntare su modelli partecipativi e di welfare aziendale, per attutire inutili conflitti, creare un clima più positivo e compensare le carenze del welfare statale.

Nel sistema italiano, al di là degli stereotipi spesso dannosi e contradditori sui fannulloni, l’assenteismo è figlio di una cultura che disprezza le regole, ma che è anche l’altra faccia dell’assenza del merito. Se non c’è valutazione non c’è controllo, se non c’è valorizzazione non c’è sanzione, se non ci sono premi non vi sono nemmeno punizioni. Ed è figlio anche di capi, dirigenti e graduati che per amor di consenso non fanno il loro lavoro. È così che un certo lassismo diventa figlio dell’opacità dell’organizzazione e della discrezionalità della gestione.

Certo, i casi di cronaca di questi giorni confermano che in Italia vi è un allarme rosso nel pubblico impiego, che non è un settore che premia il merito e che spesso ottiene quel che si merita. Non è in ogni caso questa la sostanza degli episodi di oggi, che non ammettono discussione né colpevoli comprensioni. Episodi come quello dell’uso dei pianisti del tornello, dei «badge-raiser», per poi trovare gli assenti nelle vie dello shopping o addirittura indaffarati a svolgere un altro lavoro non ammettono assoluzione e vanno stroncati senza esitazione. Salvo poi fare i conti con una giustizia orba, a maglie larghe, che a volte copre i colpevoli, danneggiando gli onesti. L’ultimo miglio dell’assenza di regole e di culture quotidiane, dove, al di là degli effetti-annuncio, non si riescono a scalfire le leggi del merito né quelle, gemelle, dell’impunità.

La Stampa 16.11.10

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