Oggi può sembrare partigiano a favore di Gianfranco Fini, ma sostenere, come lui ha fatto, che il federalismo va bene, purché lo si cali in una solida cornice di unità nazionale, non è un’opzione politica. È anzi una verità che risponde in primo luogo a ragioni di funzionalità ed efficienza, delle quali chiunque ha modo di sperimentare già oggi l’importanza in tanti ambiti della vita quotidiana. Pensate all’aeroporto e pensate all’irritazione che vi provoca restare chiusi in aereo perché non è arrivata la scala, oppure restare bloccati nel finger perché non c’è l’addetto all’apertura delle porte, oppure fermi in attesa del bagaglio perché i carrelli che lo trasportano sono impegnati altrove. Un paese ad assetto federale è come un aeroporto, nel quale servizi diversi ricadono bensì nella responsabilità di operatori diversi, ma non per questo sono isole separate, al contrario ci si aspetta che funzionino come parti di un unico sistema. Intanto sono miriadi le attività che non conoscono i confini regionali e poi ci sono quelle che, pur svolgendosi entro tali confini, devono fare i conti con responsabilità istituzionali diverse.
Non è forse vero che per vivere e per lavorare ci avvaliamo di reti – reti di strade, di ferrovie, di porti, di energia elettrica, di telecomunicazioni, di servizi sanitari e di altro ancora – mentre le città sono luoghi nei quali tutto confluisce ed è un tutto nel cui governo entrano il comune, la regione, lo stato e i tanti gestori dei diversi servizi? Ve lo immaginate il caos (che forse per la verità già conoscete) se ciascuno dei responsabili, delle reti e delle città, andasse per conto suo?
Occorre perciò che vi siano regole e standard comuni perché le reti si connettano al loro interno e, quando serve, anche fra di loro. Io posso vivere in una regione e ammalarmi in un’altra e non sono assistito con efficienza se, entro la rete sanitaria, le unità delle due regioni non sono connesse. Io posso avere convenienza a scaricare le mie merci nel porto di Genova, ma la convenienza si perde se dal porto non si raggiungono rapidamente, per strada o per ferrovia, le destinazioni finali. E nelle città non basta la polizia a fornire sicurezza se il comune non illumina le strade e se le stesse fermate dei mezzi pubblici non sono pensate tenendo conto dei rischi che può correre una donna che le usa la sera.
Insomma, ci vuole una cornice di unità che certo, in un assetto federale, non è quella dello stato centralista, con la sua catena gerarchica e la rigida distinzione fra livelli di comando e livelli di esecuzione.
Ma alcune regole uniformi vanno stabilite per evitare che chi svolge una stessa attività in più regioni si trovi alle prese con procedure e requisiti diversi. Alcuni disegni comuni vanno immessi nelle reti, per dare loro la mappa delle connessioni necessarie. E il coordinamento operativo deve essere sempre assicurato.
È – se ci riflettiamo – quello che fa oggi l’Unione Europea nei confronti degli stati membri. Gli stati membri dell’Unione sono di sicuro qualcosa di più delle regioni sia pure federalizzate. Ciò nondimeno, per dare alle nostre imprese un mercato europeo integrato, Bruxelles ha imposto regole uniformi per molteplici aspetti della loro attività. E non sempre ci si è resi conto che esse non sono una vessazione aggiuntiva, ma la garanzia di una disciplina unica al posto delle più disparate discipline nazionali. Lo fa Bruxelles, dovremo farlo noi all’interno del paese, evitando che le diversità regionali si esercitino dove meno servono e vadano in direzione opposta all’unità addirittura europea del mercato.
C’è poi il coordinamento e qui davvero abbiamo da imparare, perché in esso l’Unione ha sviluppato tecniche e professionalità assai sofisticate, che in un’Italia con autonomie più forti ci saranno preziose. In futuro sarà infatti il coordinamento il principale mestiere delle istituzioni centrali e sono pochi oggi a saperlo fare, giacché l’addestramento dei nostri funzionari è tutto costruito sulle singole procedure, che procedono ciascuna sui propri binari. Il coordinamento con gli altri è in genere un fastidio, il risultato a cui l’insieme delle procedure dovrebbe portare è al di là dell’orizzonte di ognuna e non lo sente come una propria responsabilità chi vive il proprio lavoro all’interno di essa.
Un vero paradosso della nostra storia è che fra i pochi che sanno fare coordinamento, e sono per questo apprezzati, ci sono i prefetti, nonostante siano ancora visti come il simbolo del vecchio e odiato centralismo da chi (sbagliando) non li ama. È vero, erano essi a incarnare la superiorità gerarchica dello stato nei confronti degli enti locali. Ma una volta persi i relativi poteri, sono riusciti a rimanere essenziali grazie alla autorevolezza e alla flessibilità con cui hanno saputo mettere intorno al tavolo i protagonisti della vita locale, contribuendo a risolvere i loro conflitti e finendo addirittura per essere sollecitati a farlo.
Questo è coordinamento della qualità migliore, che deve la sua efficacia non a prerogative formali, ma alla legittimazione via via conquistata nell’effettuarlo con successo. E merita di essere segnalato, perché prova che il ruolo delle istituzioni non è segnato una volta per tutte. La conversione del nostro stato centrale ai suoi compiti futuri, compiti che lo faranno costare di meno (sono strutture più snelle, più flessibili e più intersettoriali quelle che serviranno) e lo faranno contribuire di più all’efficienza complessiva del sistema, è dunque possibile.
“Italiadecide”, l’associazione di ricerca bipartisan che ha Carlo Azeglio Ciampi come presidente onorario, Luciano Violante come presidente effettivo e diverse altre persone (compresi Gianni Letta, Giulio Tremonti e il sottoscritto) che collaborano al di là degli schieramenti, presenta proprio in questi giorni un rapporto che scava lungo le linee qui esposte.
Spiega l’Italia che abbiamo, con le sue reti a volte funzionanti ma più spesso sconnesse, con le sue città dove del coordinamento ci si accorge molte volte troppo tardi, con i suoi processi decisionali, segnati da frequenti colli di bottiglia e incanalati su percorsi distinti, che tendono a incontrarsi solo per l’esercizio dei poteri di veto. Ma è anche un’Italia che sente molto il bisogno di coordinamento e di unità e sa in più casi darne prova, suggerendo essa stessa con le sue esperienze le proposte che concludono il rapporto.
Invito a leggerlo e ad accorgersi che chiunque sarà chiamato a governare o continuerà a farlo (per parafrasare parole recenti del capo dello stato) potrebbe costruire un’Italia migliore, senza necessariamente litigare e avvalendosi anzi di una piattaforma condivisa. Non ci crederete, ma l’esperienza che ci ha portato al rapporto, ci dice che è possibile. Ed è, di per sé, già un’espressione di quell’Italia migliore.
Il Sole 24 Ore 14.11.10