Mentre tutti i 26 Paesi dell’Unione Europea si attrezzano per sostenere l’avanzamento dell’obbligo scolastico, per fare in modo che i ragazzi stiano il più a lungo possibile a scuola (il nostro – il 27° – è l’unico ad avere l’obbligo sotto i 15 anni); mentre – mancato il programma di Lisbona 2010 – i Paesi europei si sono ridati per il 2020 l’obiettivo di aumentare il numero dei giovani tra i 20 e i 24 anni con un diploma di scuola superiore; mentre fior di ricerche dimostrano i costi sociali della dispersione, nonché i vantaggi economici a lungo termine di un aumento della scolarizzazione; mentre accadono queste ed altre cose, nella nostra sgangherata Italia, nell’Italietta che vive alla giornata, o meglio al minuto, si segna una delle pagine più nere delle politiche dell’istruzione da sempre fino ad oggi e si compie un enorme passo avanti verso la demolizione del progetto di innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni.
La Camera ha infatti approvato il ddl Lavoro, che introduce – in sostituzione dell’ultimo anno di biennio – la possibilità di svolgere formazione in azienda. Qui da noi, cioè, un anno di apprendistato ha lo stesso valore di anno di scuola (professionale, tecnico, scientifico, in un’allucinante controtendenza rispetto al mondo civile. Ecco un esempio davvero eloquente del significato che coloro che ci governano attribuiscono alla scuola. Del resto, non ci stupisce, considerando il trattamento riservato al nostro sistema di istruzione negli ultimi due anni. Ma si tratta di un esempio ancor più significativo del modo in cui concepiscono i diritti fondamentali. E non solo quello all’istruzione, ma soprattutto quello che vorrebbe analoghi trattamenti per tutti i cittadini del nostro Paese. Si accettano scommesse: chi pensate sarà coinvolto da questo lungimirante ripristino delle caste? I figli dei professionisti, o anche dei commercianti? Coloro che possono contare su condizioni socioeconomiche favorevoli? Quelli che – per abitudine culturale o per moda sociale – dispongono di libri in casa, come si trattasse di un bene primario? O coloro che galleggiano in precarie condizioni sociali, economiche e culturali? Faranno ricorso a questo sconvolgente passo indietro sul piano della democrazia, dell’inclusione, delle pari opportunità e del diritto di vivere la prima parte dell’adolescenza lontano dal lavoro i nati bene o i nuovi italiani, i figli di un dio minore per razza, colore, religione, latitudine?
Continuiamo a spendere parole belle, parole alte; continuiamo ad esprimere concetti per un altro mondo. Forse ci parliamo addosso, senza rendercene conto. Perché in questo mondo, quello in cui viviamo, scuola inclusiva, emancipante, educazione, conoscenza, socializzazione, relazione educativa, uguaglianza, cittadinanza, sono formule vuote, che non emozionano più quasi nessuno. Che non producono reddito immediato, e perciò non interessano. La disuguaglianza sociale non rappresenta più un disvalore per nessuno. Tranquillamente, in barba a don Milani, facciamo parti diverse tra diversi.
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