Come mostrano i dati Ocse, l’Italia è poco generosa nei confronti delle famiglie. Spendiamo l’1,3% del Pil in politiche famigliari, solo Spagna e Grecia dedicano meno risorse del nostro paese. Rafforzare il sostegno alle famiglie è un obiettivo generalmente condiviso dalle diverse forze politiche. Come questo obiettivo possa essere raggiunto, quale equilibrio debba esserci tra fisco e servizi, tra agevolazioni fiscali e trasferimenti monetari sono invece questioni molto più controverse. La Conferenza delle famiglie che si è chiusa ieri a Milano ha dato un segnale di novità nel dibattito sulla rimodulazione del nostro sistema tributario nella direzione di una maggiore attenzione alle famiglie.
Dopo mesi di dibattito sull’opportunità d’introdurre nel nostro paese il meccanismo del quoziente famigliare seguendo l’esempio francese, si è cominciato a parlare di fattore-famiglia. Perché è una novità e non semplicemente un cambio di etichetta? Perché il fattore-famiglia, al di là delle modalità specifiche d’implementazione, che ancora sono da precisare nei dettagli, diversamente dal quoziente famigliare non è una modalità di tassazione del reddito su base famigliare, in cui cioè l’unità impositiva è la famiglia nel suo complesso e la base imponibile è il reddito cumulato dei soggetti che la compongono, bensì su base individuale, come il sistema attualmente in vigore. Rimodulazioni della no tax area commisurate al numero di componenti fiscalmente a carico sono lo strumento individuato per ridisegnare un fisco più a misura di famiglie.
A noi sembra un importante cambio di direzione. È importante finalmente riconoscere che la tassazione su base individuale non è in discussione e che uno strumento fiscale che aiuti le famiglie non può scoraggiare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, come avrebbe fatto il quoziente famigliare.
Si è sottolineato molto nel dibattito di questi giorni come il fattore-famiglia, a differenza del quoziente, non abbia conseguenze redistributive indesiderate. Meno si è detto invece sui suoi effetti sul lavoro delle donne. Forse perché il fattore-famiglia non è pensato esplicitamente come strumento fiscale a favore delle famiglie con due percettori di reddito e con carichi famigliari, ma piuttosto come agevolazione generale per le famiglie con carichi di cura, che comprendono coniuge a carico, figli a carico, anziani non autosufficienti. Misure più specifiche per agevolare le spese sostenute dalle famiglie con bambini in cui entrambi i genitori lavorano potrebbero essere forme di detrazione o trasferimento mirate a queste tipologie di contribuenti (si veda Casarico, Ceriani, Profeta, Econpubblica Short Note n. 1/2010, Bocconi, Igier).
Anche se forse non è obiettivo della proposta del fattore-famiglia coniugare le scelte di fecondità con la presenza di due percettori di reddito, è opportuno sottolineare che in questo modo stiamo per lo meno evitando di creare disincentivi pericolosi. È noto infatti che dove le donne partecipano di più, la fecondità è più elevata; che dove la spesa per le famiglie è maggiore, sia la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia la fecondità sono più elevate; che nelle famiglie con doppio percettore di reddito l’incidenza della povertà è inferiore. Un maggior benessere per le famiglie e per la società nel suo complesso passa anche attraverso una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro.
Ignorare questo aspetto nel ridisegno del fisco sarebbe pericoloso, ancora di più in assenza di una rete di servizi, in particolare alla prima infanzia e agli anziani. In Francia infatti il sistema del quoziente famigliare coesiste con un’elevata spesa per servizi che da noi manca.
Sarebbe stato singolare introdurre come prima misura in un contesto in cui le carenze sono tante uno strumento, come il quoziente famigliare, che ha un evidente effetto disincentivante sul lavoro femminile. Essere ritornati a parlare di tassazione individuale dunque è un buon segnale.
Il Sole 24 Ore 11.11.10
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Tutto sulle spalle della donna il carico di lavoro in famiglia
Secondo l’Istat persiste una forte discrepanza nella divisione del carico di lavoro familiare tra i partner. L’asimmetria è trasversale a tutto il Paese, anche se nel Nord raggiunge livelli più bassi. La terza e ultima giornata della Conferenza nazionale sulla famiglia, a Milano, si apre nel segno della disuguaglianza di genere. L’Istat, infatti, pubblica una serie di dati secondo cui nel 2008-2009 il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne, valore di poco più basso di quello registrato nel 2002-2003 (77,6%). Persiste dunque una forte discrepanaza nella divisione del carico di lavoro familiare tra i partner.
L’asimmetria nella divisione del lavoro familiare è trasversale a tutto il Paese, anche se nel Nord raggiunge sempre livelli più bassi. Le differenze territoriali sono più marcate nelle coppie in cui lei non lavora. L’indice assume valori inferiori al 70% solo nelle coppie settentrionali in cui lei lavora e non ci sono figli, e nelle coppie in cui la donna è una lavoratrice laureata (67,6%). Rispetto a sei anni prima, l’asimmetria rimane stabile nelle coppie in cui la donna non lavora (83,2%).
Cala, invece, di due punti percentuali nelle coppie con donna occupata, passando dal 73,4% del 2002-2003 al 71,4% del 2008-2009. Una diminuzione, questa, che riguarda sostanzialmente le coppie con figli: in presenza di due o più figli l’indice passa, infatti, dal 75% al 72,2%.
Meno tempo libero. Uomini e donne in coppia, con figli o senza, hanno rinunciato negli ultimi anni a molto tempo libero. Secondo l’Istat il tempo dedicato al lavoro retribuito cresce tra le madri occupate di 17′, esattamente quanto cala il lavoro domestico. La riduzione del tempo di lavoro familiare non si traduce, dunque, in un incremento del tempo libero, ne’ di quello fisiologico, che restano sugli stessi livelli del 2002-2003. Anche tra le donne occupate senza figli emerge qualche cambiamento, per lo piu’ di segno negativo, il tempo libero diminuisce di 19′ a fronte di una forte crescita del tempo per gli spostamenti, mentre per le donne non occupate non si registrano variazioni di rilievo. Per quanto riguarda gli uomini, tra quanti vivono in coppia senza figli si registra un aumento di 35′ del tempo per il lavoro retribuito (da 5ore e 44′ del 2002-2003 a 6 ore e 19′ del 2008-2009). Per gli uomini in coppia con figli non ci sono differenze significative nel tempo dedicato al lavoro. E’ generalizzata, invece, la tendenza ad una ulteriore diminuzione del tempo libero rispetto a quella gia’ rilevata tra il 1988-1989 e il 2002-2003. Questo calo riguarda tutti gli uomini in coppia (-10′), ma e’ piu’ marcato (-21′) tra i partner in coppia senza figli, a causa del maggiore investimento nel lavoro retribuito appena descritto.
Donne in cucina. Oltre 9 donne su 10 sono ancora ‘relegate’ in cucina. Scendendo nel dettaglio delle attività che compongono il lavoro domestico, si nota che l’impegno di tutte le tipologie di donne analizzate spazia indifferentemente tra tutti i tipi di attività: dalla preparazione dei pasti, alla pulizia della casa e della biancheria, sebbene, come già visto per il lavoro domestico nel complesso, le occupate in un giorno medio dedichino meno tempo e siano meno impegnate delle non occupate in tutte queste attività. Le donne, infatti, non possono esimersi dal cucinare: in un giorno medio tali attività sono svolte dal 90,5% delle occupate e dal 97,8% delle non occupate. Anche le attività di pulizia della casa impegnano l’82,7% delle occupate, per arrivare a quote del 94,8% tra le non occupate. Le attività di apparecchiare/sparecchiare e lavare i piatti sono svolte dal 66,3% delle occupate e dal 76,5% delle non occupate. Il 35,7% delle occupate in un giorno medio lava o stira, quota che sale al 49,2% per le non occupate. Infine, rispettivamente il 44,4% delle occupate e il 66,2% delle non occupate acquista beni e servizi. Gli uomini sono più selettivi nel tipo di contributo che forniscono: in un giorno medio della settimana tra i partner di donne occupate il 41,7% cucina , il 31,4% partecipa alle pulizie della casa, il 29,9% fa la spesa, il 26,6% apparecchia e riordina la cucina, mentre quasi nessuno lava e stira i panni. Tra gli uomini che hanno una partner che non lavora, tutte le frequenze di partecipazione si dimezzano, ad eccezione degli acquisti (27,2%).
La Repubblica 10.11.10