E’ comprensibile che il mondo politico sia eccitato. Fini sta consumando il suo strappo, e Berlusconi – dopo quasi vent’anni – potrebbe anche essere costretto a uscire di scena. Vedremo. Sulla carta la fine del regno di Berlusconi presenta almeno un aspetto positivo: quello di togliere dalla scena la principale fonte di divisione degli italiani.
E’ lecito sperare che, venuto meno il pomo della discordia, si possa tornare a ragionare di politica in modi non dico un po’ meno incivili (su questo è inutile farsi illusioni), ma almeno un po’ meno partigiani. E tuttavia basta osservare con un minimo di distacco il modo in cui il regno di Berlusconi sta tramontando per spegnere non pochi ottimismi sul dopo. Già, perché la qualità del «dopo» dipenderà molto dalle modalità della deposizione del monarca.
C’è una prima possibilità, e cioè che sia Futuro e libertà, il partito di Fini, a far cadere il governo. In questo caso si aprirebbe una drammatica resa dei conti all’interno del centrodestra, perché il gesto di Fini – per le modalità con cui si sta consumando – non potrebbe non essere vissuto dai fedeli di Berlusconi come un tradimento, come Bruto che pugnala Cesare.
E questo per l’ottima ragione che quasi tutto ciò che oggi Fini rimprovera a Berlusconi (a partire dalla «vergogna» della legge elettorale), fino a ieri era condiviso da Fini stesso. Ma un centrodestra spaccato fra seguaci di Fini e nostalgici del Cavaliere, fra antiberlusconiani e anti-antiberlusconiani sarebbe una sciagura per il nostro sistema politico.
C’è una seconda possibilità, ed è che a chiudere l’era di Berlusconi sia il temutissimo (da lui) governo tecnico, un Comitato di Liberazione Nazionale con dentro tutti i nemici del premier, da Di Pietro a Fini. Se Napolitano ne consentisse la nascita non farebbe che applicare procedure previste dalla Costituzione, ma è difficile non vedere che in un simile esecutivo, in cui chi ha perso elezioni governa contro chi le ha vinte, metà degli italiani scorgerebbe un tradimento del mandato popolare, mentre l’altra metà non potrebbe che vedervi l’ennesima conferma dell’incapacità dell’opposizione di battere Berlusconi politicamente, senza bisogno di magistrati, veline e ribaltoni parlamentari.
C’è infine un’ultima possibilità, e cioè che la caduta di Berlusconi, chiunque ne sia l’artefice, ci porti dritti a nuove elezioni, giusto in concomitanza con i festeggiamenti per l’Unità d’Italia. Ma anche questo scenario non è rassicurante. Non solo per la prevedibile reazione negativa dei mercati, con conseguente aumento del costo del nostro debito pubblico, ma per lo scenario politico che si aprirebbe davanti a noi. Che cosa potremmo aspettarci, infatti, da una competizione elettorale condotta dagli attori attualmente in campo?
La previsione più realistica mi pare quella di una polarizzazione del conflitto politico sull’asse Nord-Sud, con il Pdl e la Lega sostanzialmente schierati con il Nord, i partiti del terzo Polo decisi a fermare il già impervio cammino del federalismo, e la sinistra in mezzo, a bagnomaria fra la fedeltà al progetto federale e la necessità di allearsi con i suoi nemici. In buona sostanza un match Bossi-Berlusconi-Tremonti contro Fini-Casini-Bersani.
Se così dovessero andare le cose, l’Italia ne uscirebbe più debole e divisa che mai, e questo a prescindere da quale dei due schieramenti dovesse prevalere nel confronto elettorale. Quel che due schieramenti del genere avrebbero in comune, infatti, è precisamente la mancanza di una visione unitaria dell’interesse nazionale. Lo schieramento del Nord non vede i legittimi interessi del Sud, che sono innanzitutto di veder aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture. Lo schieramento del Sud non vede i legittimi interessi del Nord (primo fra tutti il federalismo), e interpreta come interessi del Mezzogiorno quelli che, in realtà, sono soltanto gli interessi di chi lo ha mal governato finora: i cittadini del Sud non hanno bisogno di meno federalismo ma, semmai, di una classe dirigente che ponga termine alla dilapidazione delle risorse pubbliche, e si metta finalmente in grado di erogare servizi all’altezza di un Paese moderno.
Ciò di cui oggi si avverte la mancanza è proprio questo: un partito, o un’alleanza, che non giochi sulla divisione Nord-Sud, ma sappia affrontare gli squilibri territoriali in tutta la loro complessità tecnica e istituzionale, al di fuori delle vuote formule con cui, in questi giorni, politici di ogni provenienza e colore stanno conducendo il loro misero gioco.
La Stampa 09.11.10