Il dolore dei parenti non sembrava avere il diritto di diventare pubblico e condiviso. L’Aned raccoglie le testimonianze dei famigliari di chi finì nei Lager nazisti. A partire dal ‘43 furono deportati in 44 mila nei Lager nazisti, per motivi «politici»: erano antifascisti, partigiani, oppositori veri o presunti del regime. Dopo il ‘45 ne tornarono poche migliaia, mentre i genitori e i figli continuavano disperatamente ad aspettarli, a cercare notizie. Nello scritto che pubblichiamo qui a fianco, Raffaella Lorenzi racconta come le accadde di sperare addirittura per vent’anni, e solo andando di persona a Mauthausen si arrese all’idea che il padre era morto, ucciso dagli stenti pochi giorni dopo la liberazione del campo.
La vicenda dei deportati è stata terribile ed è ormai nota e studiata: ma quella delle famiglie, dei figli, dei discendenti è invece rimasta per mezzo secolo una memoria privata, un dolore che non sembrava avere il diritto di diventare pubblico e condiviso. L’Aned, l’associazione che raccoglie quanti sono tornati e naturalmente i loro discendenti, da qualche tempo ha imboccato con decisione questa strada, che va oltre la testimonianza perché, come ci dice il presidente Gianfranco Maris, «scavare ancora nelle vicende delle vittime è illusorio; bisogna invece costruire una memoria storica complessiva». Ogni vittima ha lasciato dietro di sé altre «vittime», una scia di sofferenze, di vita sconvolte o mutate, di destini individuali e sociali che sono parte di un’identità nazionale: la nostra, e non solo.
In una delle testimonianze raccolte nei quaderni che l’Aned pubblica ogni anno con gli atti di un convegno milanese dove vengono raccolte appunto le memorie dei famigliari, la figlia di Maria Massariello, un’insegnante che proprio nei suoi ultimi giorni è riuscita a completare un libro documentatissimo sulla propria storia e sul campo di Ravensbrück (Il ponte dei corvi, pubblicato da Mursia nel ‘79), cita un seminario analogo tenutosi in Germania. Là una donna nata proprio in quel campo, e abbandonata poi in un bosco durante le periodiche «marce della morte», narrò di avere cercato la madre per anni, ostinatamente. Quando finalmente la trovò, si scontrò con un muro di silenzio, perché la poveretta aveva rimosso le circostanze della nascita della bambina, molto probabilmente dovute a uno stupro da parte di una SS.
La «generazione dimenticata» – questo il titolo dell’incontro tedesco – non si è però rassegnata a questo ruolo. Continua a parlare e a cercare di capire; proprio negli ultimi anni riesce anzi a far sentire con più forza la propria voce, in modo analogo a quanto avviene per i famigliari delle vittime del terrorismo. Lo ha sottolineato il direttore della Stampa, Mario Calabresi, partecipando all’incontro dell’Aned che si è tenuto a Milano domenica scorsa. Gli scenari sono piuttosto simili: da una memoria «ferma», quella relativa alle vittime, a una dinamica, che coinvolge le vittime sconosciute, gli effetti a lungo termine, come i cerchi concentrici su una superficie liquida quando vi si getti un sasso.
Lo storico David Bidussa, nel saggio che segue il più recente dei quaderni pubblicati dall’Aned (I nuovi testimoni dei Lager. Figli e nipoti raccontano, Mimesis) sostiene che «dopo la morte dell’ultimo testimone la memoria passa agli storici». Ma in un altro senso l’ultimo testimone non è necessariamente il protagonista della tragedia (in questo caso della deportazione, per quanto riguarda il terrorismo la vittima dell’attentato): è alla fine di una lunga catena, che ci riguarda tutti.
La Stampa 09.11.10