Qualche volta le occasioni capitano. Ma, più spesso, si scelgono. L’ultima applicazione di questa regola l’ha dimostrata, ieri, il governatore della Banca d’Italia, con la sua lezione magistrale all’università di Ancona. Mario Draghi, infatti, ha approfittato del convegno in onore di Giorgio Fuà, il grande studioso italiano dedicatosi soprattutto ai problemi dello sviluppo, per un discorso che ha superato i tradizionali limiti dell’economia, suggerendo una ampia strategia politica per il futuro dell’Italia.
Con la consueta stringatezza, il governatore è riuscito a condensare in tredici cartelle quasi un programma di governo, di cui l’invito finale, citato per intero, basta a fare capire l’ambizione e la difficoltà della sua proposta: «Dobbiamo tornare a ragionare sulle scelte strategiche collettive, con una visione lunga. Cultura, conoscenza, spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro. La sfida, oggi e nei prossimi anni, è creare un ambiente istituzionale e normativo, un contesto civile, che coltivino quei valori, al tempo stesso rafforzando la coesione sociale». Il profilo di queste parole, cadute, occasionalmente ma significativamente, in un clima di polemiche dominate da temi che, con un eufemismo, potremmo definire «di minore impegno», fanno pensare che la vera futura partita politica si giocherà, probabilmente, sul campo dell’economia.
Con due protagonisti, Draghi, appunto, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, finora, hanno costruito la loro immagine con certosina sapienza e prudenza. In un duello a distanza che è riuscito in una miracolosa impresa, anzi in due. Quella di tenerli lontani da qualsiasi schizzo di fango proveniente dalle cronache politiche d’oggi, sfruttando con abilità silenzi istituzionali quanto mai opportuni. E quella, forse ancor più difficile, di ingaggiare una tenzone cultural-diplomatica che dura da anni, ma i cui altalenanti andamenti non li hanno, come capita spesso, immiseriti reciprocamente.
La competizione tra via Nazionale, sede della Banca d’Italia, e via XX Settembre, dove è collocato il ministero dell’Economia, è riuscita a svolgersi ben fuori dal ristretto perimetro romano in cui gravitano i due palazzoni. Si è proiettata, infatti, su un palcoscenico mondiale che ha assistito, con divertita ma rispettosa curiosità e, magari, con un pizzico di malizia, al balletto di freddi sorrisi e di gelide battute da parte di due personaggi che, nel frattempo, crescevano nella considerazione internazionale.
Le plutarchiane «vite parallele» di Draghi e di Tremonti si sono fronteggiate anche in una sfida culturale che ha fatto uscire l’economia dal suo tradizionale ambito, fatto di aride cifre e di previsioni statistiche spesso smentite dai fatti. Il governatore, assumendo una carica che l’ha costretto a uscire dagli elitari circuiti finanziari tra i quali era più conosciuto, ha progressivamente allargato il suo sguardo all’interesse per i grandi mutamenti demografici, culturali, sociali, tecnologici avvenuti a cavallo dei due secoli nelle nostre società. Il ministro ha pubblicato una serie di pamphlet filosofico-politici sugli effetti della globalizzazione, culminati, l’anno scorso, con il fortunato saggio «La paura e la speranza» che ha suscitato un acceso dibattito, sia in Italia, sia all’estero
A questa comune propensione di Draghi e di Tremonti all’allargamento delle relative iniziali competenze culturali e professionali verso i campi più vasti dell’intera scienza umana si è unita una bizzarra inversione di ruoli nella pratica quotidiana del loro lavoro. Il governatore, pur non abdicando, naturalmente, ai compiti di severità nel giudizio sul controllo dei conti dello Stato ha sollecitato spesso il ministero dell’Economia e, in generale, il governo nel suo complesso a una maggiore sensibilità e attenzione per i problemi della crescita e della modernizzazione della struttura produttiva italiana. Con una particolare preoccupazione per i giovani, angustiati dalla disoccupazione e della precarietà del lavoro. Appello fondamentale, del resto, anche nella lezione anconetana di ieri.
In questa seconda esperienza ministeriale in via XX Settembre, Tremonti, invece, si è caratterizzato soprattutto come un duro custode della contabilità nazionale, fino al punto di diventare il ministro più inviso e temuto dai suoi colleghi, costretti a dolorosi tagli nei loro budget di spesa. Insomma, Draghi sembra aver invaso i compiti del ministro dell’Economia e dell’Industria (quando non era vacante). Tremonti ha indossato i panni del più arcigno banchiere centrale. Il risultato di questi curiosi intrecci tra due personaggi diversissimi per indole, propensioni culturali, stili di vita, storie professionali e umane li pone, così, in prima fila per la candidatura alla guida del futuro politico della nazione. Per meriti loro, naturalmente. Per demeriti altrui, vista la debolezza della nostra attuale classe politica, anche. Soprattutto perché i tempi di crisi sollecitano un vigoroso e coraggioso piano di riforme economiche. Chissà se sarà proprio dalla scienza che Carlyle definiva «triste» che potrà arrivare ai cittadini italiani, nel prossimo decennio, un po’ di felicità.
La Stampa 06.11.10