Le eccellenze ci sono. Ma in Italia si fa di tutto per danneggiarle. Un esempio è il Politecnico di Torino: un gioiello in continua espansione incastonato nelle ex officine ferroviare, sotto le Alpi piemontesi. Un campus universitario che raccoglie 6 mila studenti stranieri su 30 mila totali. Ma che oggi rischia di non riuscire a mantenere il livello altissimo che lo contraddistingue. Per questo motivo l’università ha preso posizione contro la riforma del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini e i tagli previsti nella finanziaria del 2008.
Il bilancio dell’eccellenza torinese che raccoglie le facoltà di Ingegneria e Architettura, infatti, è costituito per il 30% dai fondi pubblici (FFO) e per il 70% da finanziamenti provenienti da fondazioni bancarie, enti e progetti europei. A causa di un vincolo legislativo non può spendere più dell’80% dell’FFO per gli stipendi di docenti e personale tecnico-amministrativo. E i tagli che attaccano il fondo di finanziamento ordinario obbligano l’ateneo, a scapito della qualità, a non investire sulla didattica, al blocco del turnover (quindi a non sostituire i docenti che vanno in pensione) e alla precarizzazione dei professori con contratti che sfuggono al vincolo di bilancio. A fronte di un corpo docente di circa 850 persone, al Politecnico ci sono altri 750 atipici tra assegnisti, co.co.co., borsisti e dottorandi.
“Anche loro hanno contribuito a far grande il Politecnico” spiegano i ricercatori riuniti in assemblea insieme ai precari, che invidiano il loro contratto a tempo indeterminato perché in molti con questa riforma rischiano di dover rinunciare a lavoro e sogni. “Io ho 36 anni – racconta Francesco Pescarmona – e secondo il ministro Gelmini adesso potrei aspirare a un contratto da ricercatore a tempo determinato, che mi manterrà precario per altri 8 anni, dopodiché a 44 anni non mi resterebbe che sperare, a fronte di una valutazione positiva, che il mio ateneo abbia i soldi per assumermi nel suo bilancio. Perché se la situazione economica fosse come quella di adesso, non avrei speranze”.
Qualche speranza hanno cercato di dargliela i deputati del Partito democratico, con un emendamento che prevedeva per gli assegnisti di ricerca l’ingresso diretto al secondo triennio di contratto a tempo determinato. Tre anni in meno di precarietà prima del concorso. Ma il governo ha espresso parere negativo. Lo stesso esecutivo di cui fa parte il ministro Gelmini che dice che questa riforma serve a mettere i giovani in cattedra a 30 anni. Ma quali?
I ricercatori hanno interrotto la didattica dando voce a una protesta che unisce tutti: studenti, precari e docenti. E che è servita a scoperchiare un vaso di Pandora. “Da questa riforma intravediamo un modello di università pubblica gestita da privati e fatta per rendere profitti – spiegano ricercatori e precari – noi vogliamo avere un’istruzione indipendente che preveda una formazione di base all’università e una professionale nelle aziende. Queste ultime invece vogliono trasferire la seconda sugli atenei”. La deriva aziendalistica di facoltà come ingegneria e architettura, che creano professionisti “pronti all’uso” è facile. “Quest’anno ricorrono i 150 anni di cultura Politecnica – spiegano le ricercatrici Marika Mangosio e Caterina Mele – che si sono contraddistinti per una formazione critica e d’insieme che ora vogliono semplificare e rendere aziendalista, andando contro la Costituzione”. La paura è quella di vincolare la ricerca ai privati, cancellando quella di base che non interessa alle aziende e minando l’autonomia.
“La nostra protesta – spiega Gustavo Ambrosini – cioè attenersi al contratto e ridurre le ore di didattica frontale, ci mette in difficoltà. Perchè se uno è bravo in determinate ricerche è giusto che trasmetta ciò che sa agli studenti. Ma non possiamo accettare una riforma che ci manda a morire e precarizza i ricercatori creando un esercito di schiavi. Un metodo che non fa altro che rafforzare il potere dei baroni che li hanno in pugno”. E spiegare agli studenti che è importante fare un percorso all’interno dell’università anziché rispondere al richiamo delle sirene provenienti dalle aziende, è molto difficile. “Questa riforma scardina anche le basi del diritto allo studio – spiega Simone Baglivo, studente – e in Piemonte la situazione è anche peggiore”. La Regione, infatti, potrebbe ridurre della metà i finianziamenti e il presidente Roberto Cota ha proposto di finanziare solo gli studenti piemontesi. In piazza ci sono tutti gli altri, quelli che vivono nelle residenze universitarie ottenute per merito e per il basso reddito familiare che dall’anno prossimo potrebbero restare senza un tetto. Col rischio di abbandonare gli studi per sempre.
Il Fatto Quotidiano 02.11.10