Senza famiglia: cosa sarebbe l´Italia? Eppure, al di là delle promesse e dei proclami, continua ad essere dimenticata dalla politica e dalle politiche. Anche se resta il principale attore e ammortizzatore sociale. Pensiamo al lavoro. O meglio: al non-lavoro, che sta assumendo proporzioni preoccupanti. Soprattutto fra i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, in Italia, supera il 26%: 6 punti più della media europea (dati Eurostat). Ma nel Mezzogiorno un giovane su tre è senza lavoro.
Diciamo cose note, non solo agli esperti. Non a caso, in Italia, la disoccupazione è in testa all´agenda dei problemi, secondo oltre metà della popolazione (Demos per Osservatorio europeo sulla sicurezza, settembre 2010). Eppure, il grado di reazione e di protesta sociale è ancora limitato. Soprattutto fra i giovani. Niente a che vedere con la Francia, dove l´innalzamento dell´età pensionabile da 60 a 62 anni ha provocato un ciclo di scioperi ampio e generalizzato, che paralizza il Paese da settimane. Coinvolgendo i lavoratori di ogni settore, ma anche numerosi studenti – soprattutto dei licei. Preoccupati non tanto delle pensioni, ma del proprio incerto futuro. D´altronde, in Francia e ancora più in Italia, le prospettive dei giovani sono inquietanti. Per riprendere un´osservazione di Edmondo Berselli (nel saggio “L´economia giusta”, pubblicato da Einaudi), “si è interrotto il ciclo galbraithiano, quel processo che permetteva a ogni generazione di migliorare la propria condizione rispetto a quella precedente”.
Oggi, infatti, circa il 60% degli italiani ritiene, realisticamente, che i giovani avranno una posizione sociale peggiore rispetto a quella dei genitori.
Eppure i giovani non si ribellano. E neppure i loro genitori. Certo: la società è scossa da una sfiducia cronica. Profonda e generalizzata. Verso tutto e tutti. Politica e politici, governo e opposizione, banche e banchieri, sindacati e associazioni di categoria. Stato e istituzioni. Gli italiani hanno perso fiducia perfino nella Chiesa. Tiene solo il Presidente della Repubblica. Di qualcuno bisogna pure fidarsi, d´altronde, visto che non ci si fida neppure degli “altri”. Che ci potrebbero fregare – come pensano, in cuor loro, due persone su tre (Demos-Coop, 2009). Eppure, per quanto affondati in un oceano di delusione, gli italiani sopportano. Perché? La spiegazione – non l´unica, ma certo la principale – è piuttosto semplice, ancorché non semplicistica. Visto che in Italia c´è un solo riferimento capace di sostenere e di tenere insieme una situazione tanto precaria e traballante.
La Famiglia. Sottoposta a tensioni demografiche, etiche, organizzative. Non è più quella di una volta. Però, nonostante tutto, il 90% degli italiani la considera ancora il riferimento più affidabile. Ne è soddisfatto quasi il 100% (indagini Demos-Coop: 2006-7). Se i giovani non si ribellano, pur navigando a vista, tra disoccupazione e precarietà, affrontando cicli scolastici e universitari dagli sbocchi sempre più incerti, è perché la famiglia li protegge. Per il futuro professionale: i giovani contano sull´aiuto dei parenti e dei familiari (per il 40% di loro, il fattore di successo nel lavoro più importante: indagine laPolis per Coop Adriatica, dicembre 2009). Gli stessi imprenditori, per affrontare il passaggio di generazione preferiscono “mantenere la proprietà e la gestione dell´azienda all´interno della famiglia”. Come sostiene il 47% del campione intervistato quest´anno nell´ambito di una ricerca per Confindustria (Demos, gennaio 2010). Un anno prima la pensava in questo modo il 29%.
La crisi, evidentemente, ha rafforzato i legami più stretti. Anche perché il mondo della finanza e dei manager, diciamolo pure, non ha dato grande prova di sé in questi tempi. La famiglia. Di fronte al ridursi della spesa pubblica, ha aumentato il suo ruolo di welfare alternativo e sostitutivo rispetto allo Stato. Continua ad assumersi il peso principale nell´assistenza agli anziani (magari con la collaborazione delle badanti: ormai circa un milione, tra regolari e irregolari. Cfr. i dati Inps e le stime della Caritas e della Bocconi). Ma resta anche la principale rete di sostegno ai più giovani. Ai figli, che restano in casa sempre più a lungo; fin oltre i trent´anni. Anche se sono sempre di passaggio: fra studio, lavoro precario, stage, esperienze all´estero. E quando vanno ad abitare per conto proprio, perlopiù, si trasferiscono nell´appartamento di fronte, nella casa accanto, nella via poco più in là. Quasi tutti restano nei dintorni. Così i nonni si occupano dei nipoti e, a loro volta, vengono assistiti dai figli, quando ne hanno bisogno. Sono le “famiglie grappolo”, di cui parlano i demografi Francesco Billari e Gianpiero Dalla Zuanna (La rivoluzione nella culla. Il declino che non c´è, Ed. Bocconi, 2008). Reti familiari dove si scambiano aiuti, tempo, risorse e servizi, in modo continuativo.
Ebbene, questa famiglia appare ormai sovraccarica di compiti e di funzioni, che affronta con crescente fatica. Anche al proprio interno. I figli lamentano che i genitori hanno perso autorità. Che gli anziani chiudono loro gli spazi di autonomia e di affermazione, nella vita, nella società, nel lavoro. Tuttavia, non si possono ribellare, visti i legami di reciproca dipendenza e necessità (ma anche di affetto). Sempre più stretti. Peraltro, la famiglia esercita, inevitabilmente, un´influenza “conservativa” sul piano sociale. Ciascuno protegge e favorisce i figli: nel lavoro, nella professione, nella carriera.
La famiglia: in Italia, più che altrove, è utilizzata come bandiera e ideologia dai soggetti politici. Ma, come sottolineano Daniela Del Boca e Alessandro Rosina (Famiglie sole, Il Mulino 2009), è, più che altrove, abbandonata dalle politiche sociali. Pochi servizi sociali alle donne che lavorano. Sul piano fiscale, poca (nessuna) attenzione per chi ha figli – e magari coniuge – a carico. È una famiglia “stressata”, come ha rilevato l´ultimo rapporto del Censis. Impegnata a resistere con crescente difficoltà. Il filo residuo della tela logora di questo Paese logoro. Si sta logorando a sua volta. E rischia di spezzarsi.
La Repubblica 01.11.10