Berlusconi non fa nulla di male: ama la vita e le donne. Perché i giornali, ancora una volta, si accaniscono contro di lui? Perchè volergli impedire di passare ogni tanto una «serata distensiva» dopo gli sforzi massacranti che compie quotidianamente? Perchè tanto rumore per nulla? Ma il nostro premier non si scompone. Lui è «sereno». Ancora una volta, è la vittima innocente di una «spazzatura mediatica» che ne infanga l´immagine. Tanto più che gli Italiani non si lasciano più incantare dalla propaganda giornalistica e continuano a rinnovargli la fiducia. Molti sono gli uomini che lo ammirano in silenzio. Numerosi coloro che vorrebbero trovarsi al suo posto per godersi anche loro il meritato riposo del guerriero che, tornando a casa la sera dopo aver lottato contro i nemici della patria, viene accolto dalla dolcezza e dalla disponibilità delle proprie donne. Peccato che in questo quadro idilliaco fatto di lavoro accanito e di gioie domestiche le donne continuino a giocare sempre lo stesso ruolo: comparse marginali di un copione i cui gli eroi sono gli altri, gli uomini, coloro che le amano tanto. Ma che senso può mai avere la parola «amore» – di cui il nostro premier si riempie la bocca – in un mondo in cui la donna non è altro che una «terapia mentale»?
Il potere non logora solo chi non lo ha, ma anche chi lo subisce: i sudditi sottomessi di un regno il cui sovrano considera scontata e banale la sottomissione delle donne. Chi sono infatti queste donne che ama Berlusconi? Donne facili e disposte a tutto pur di riuscire, come sussurrano alcuni con disprezzo? Donne fragili e indifese che si rivolgono al capo in cerca di protezione, nella speranza di ottenere qualcosa – la cittadinanza italiana, un casting per qualche spettacolo televisivo, un posto in una lista elettorale? Donne come le altre, magari affascinate dal potere, che non riescono a rendersi conto che le immagini vanno e vengono e che la bellezza e la giovinezza svaniscono col tempo? Quanto all´amore per queste donne, cos´altro è se non il retaggio di una cultura maschilista che continua a credere che l´unico rapporto possibile tra gli uomini e le donne sia la dipendenza?
Secoli di oppressione femminile ci hanno insegnato che le donne dipendono dagli uomini perché hanno bisogno, per esistere, che l´uomo le protegga. Anche se, per essere protette, sono poi pronte a sacrificare desideri e aspirazioni personali, e a sottomettersi al volere e alle pulsioni maschili. Secoli di maschilismo ci hanno abituato ad accettare la «servitudine volontaria» delle donne, come scrisse La Boétie. Esattamente come ci hanno insegnato che gli uomini sono pronti ad essere dolci e paterni, a patto però che le donne accettino di «pulire (loro) il cervello da tutte le preoccupazioni quotidiane».
Perché stupirsi allora che molti italiani giustifichino Berlusconi per la «vita straordinaria che conduce»? Il modello proposto, riproposto e valorizzato non è forse quello tradizionale e patriarcale che permette solo agli uomini di occuparsi della «cosa pubblica»? Niente è più forte dell´abitudine. Per abitudine si accetta tutto. Si crede perfino che l´amore di un uomo per le donne consista a giocare a bunga bunga con alcune minorenni, creando relazioni inegalitarie e fondate sulla dipendenza.
Nell´amore c´è sempre una dose di dipendenza. Ma la dipendenza, nell´amore, è sempre reciproca e non esclude mai la possibilità dell´autonomia. Anzi, è proprio quando ognuno ha possibilità di essere se stesso indipendentemente dall´altro (dal suo sguardo, dalle sue parole, dalle sue attese, dai suoi desideri) che può poi «consentire» alla dipendenza momentanea in cui lo «getta» la passione. Nell´amore c´è sempre una parte di gioco, istanti in cui le nostre fragilità e i nostri infantilismi incontrano le fragilità e gli infantilismi dell´altro. Ma amare significa soprattutto «prendere sul serio» i desideri dell´altra persona, anche quando questi desideri non coincidono con i nostri. Costruire uno spazio in cui ognuno possa esistere, esprimersi, gioire, talvolta soffrire. Di quale amore allora si parla quando le donne vengono trattate come semplici oggetti di pulsioni? Quando servono soprattutto (se non unicamente) a permettere agli uomini di passare una serata piacevole e a svuotarsi il cervello dalle preoccupazioni lavorative?
La Repubblica 01.11.10
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“Generosità da lap dance”, di Silvia Ballestra
Scattato lo scandalo – il prodigioso Bunga Bunga che tutto il mondo non ci invidia – scatta repentina anche la costruzione difensiva, urgente mitologia del ribaltamento in cui il protagonista negativo diventa eroe. La si presenta (nei Tg amici, sui giornali di proprietà, nelle parole dei sodali) in una specie di melodramma ottocentesco denso di sapori deamicisiani. Lei, la giovane Traviata bisognosa di aiuto. Lui, il ricco e potente benefattore che corre in soccorso, con cavallo bianco (diciamo un pony, va’). Bella storia, ben studiata. Ma che finisce per fare acqua da tutte le parti e risultare ridicola non meno della storiella internazionale (tutto il mondo ne ride) della nipotina di Mubarak. Prima di tutto, la giovane Traviata non appare per nulla contrita, né indifesa, né timida. Girano sue foto da far paura, dispensa lezioni di etica e morale ma gira con mazzette di contanti in borsetta, gioca alla piccola fiammiferaia ma promette libri, interviste esclusive e rivelazioni. E poi lui, il benefattore, quello che “quando c’è da far bene non mi tiro indietro”, che ha evidentemente una concezione del bene un po’, come dire, Bunga Bunga. Perché a una minorenne in difficoltà, se sei l’onnipotente “Ghe pensi mi”, dovresti come minimo offrire un’istruzione, pagare un collegio in Svizzera, o una scuola professionale. Invece il grande benefattore che fa? In pratica la ripiomba nel suo mondo di pali da lap-dance, maschi predatori e chissà quali altre peggiori destinazioni. E quindi, vien da dire, dove sarebbe il bene dispensato? Le generosità sarebbe sottrarla alla tutela del Tribunale dei minori? Un po’ poco per il Grande Benefattore. Poco anche per una come Ruby Rubacuori, povera stella, che di cuore non ne ha mai rubato nemmeno uno, figurarsi poi a chi non ne ha.
L’Unità 01.11.10