Le cifre possono sembrare modeste: per la Torino-Lione si tratta di un taglio di 9 milioni sui 671 stanziati; per la linea del Brennero la sforbiciata è più consistente, perché riduce il finanziamento di circa un quinto. La punizione dell’Europa per i ritardi e le inadempienze dell’Italia sulle grandi opere del trasporto ferroviario non è tale da compromettere, almeno per ora, la realizzazione dei progetti.
Ma la gravità della mossa attuata dalla Commissione sta nel segnale che ha voluto trasmettere, prefigurando lo spettro di una colossale beffa ai nostri danni: il possibile trasferimento dei soldi promessi al nostro Paese ad altre nazioni europee più pronte ad utilizzarli nei loro territori.
Dopo decenni di sostanziale blocco nella costruzione di importanti infrastrutture, l’Italia ha finalmente l’occasione di inserirsi in una grande rete di sviluppo del trasporto delle merci che dovrebbe aprire l’Europa a una nuova fase del mercato internazionale nell’era della globalizzazione. Con il contributo determinante di fondi Ue, il Nord-Ovest e il Piemonte occidentale, in special modo, potrebbe uscire dall’isolamento commerciale che rischia di strozzare il futuro della sua economia e il Nord-Est potrebbe ritornare al ruolo che, per secoli, ha esercitato, cioè quello di costituire la principale porta di comunicazione con l’Europa orientale.
Purtroppo, l’ipotesi del fallimento di questo aggancio italiano all’ultima carrozza di questo treno in partenza, per usare una metafora che, in questo caso, è molto vicina alla realtà, è tutt’altro che scongiurata, perché sull’Alta velocità Torino-Lione, ma anche sulla linea del Brennero, sembrano concentrarsi simbolicamente i tre fondamentali mali d’Italia: l’impossibilità di progettare opere con un’ottica di medio-lungo periodo, la confusione delle responsabilità decisionali, i tempi delle realizzazioni, drammaticamente in ritardo rispetto alla velocità necessaria nel mondo attuale.
La precarietà e l’instabilità che caratterizzano la vita di tutti i governi, anche quelli che, sulla carta, possono vantare maggioranze parlamentari ampie, riducono costantemente la politica a un raggio d’azione molto limitato, perché i vantaggi, in termini di consenso elettorale, si devono raggiungere immediatamente. Alla tradizionale miopia degli obiettivi si è aggiunta una paralisi decisionale che, negli ultimi anni, ha assunto livelli drammatici e persino farseschi. Alla vigilia di una trasformazione federalista del nostro Stato, di cui sono ancora oscuri quali saranno gli effetti concreti, l’intreccio delle competenze tra Stato, Regioni, Comuni, autorità di controllo, magistratura amministrativa, comitati più o meno spontanei, è tale da costituire un ottimo alibi per evitare l’individuazione delle responsabilità. I poteri di veto, formali o sostanziali, sono talmente estesi e incontrollabili che la fondamentale regola della democrazia, cioè il rispetto della maggioranza, è vanificata. Poiché il boicottaggio sistematico operato da qualsiasi minoranza, sia in forme violente sia in quelle della resistenza passiva, riesce sempre a prevalere.
Corollario inevitabile dei primi due mali è il terzo, quello forse più preoccupante: l’Italia è ormai fuori dal ritmo dei tempi. Il segnale che l’Europa ci ha inviato ieri è, in realtà, un ultimatum proprio su questo tema. Non bastano le dichiarazioni di principio, anche quelle solennemente sancite nelle aule parlamentari, senza l’armonizzazione dei nostri orologi con quelli di tutto il mondo. E’ vero che riusciamo a decidere solo sotto l’urgenza di problemi pressanti, che fatichiamo a decidere e, quindi, lo facciamo poco e male. Ma il peccato più grave è l’intollerabile ritardo che rende inutile e, magari controproducente, anche quel poco che riusciamo a fare.
Alla tradizionale ed emblematica incapacità italiana di realizzare le grandi infrastrutture si aggiunge, infine, l’aggravante di una chiara convenienza, questa sì contingente, della nostra economia in questo momento di crisi. Si parla troppo spesso delle difficoltà delle nostre aziende a esportare i loro prodotti, sia per le ragioni di cambio, sia per quelle dei costi. Ma forse andrebbe rivolta più attenzione alla domanda interna, perché se non ripartono i consumi, la ripresa nel nostro paese sarà sempre precaria ed esposta a troppe variabili internazionali. A questo fine, il volano delle grandi opere potrebbe offrire un grande contributo. Come sarebbe importante garantire ai nostri territori del Nord maggiori vantaggi competitivi per attirare investimenti dall’estero, perché la rapidità del trasporto è un fattore decisivo nell’allocazione degli impianti produttivi.
Ecco perché, se proprio i nostri politici non riescono ad alzare la testa e a guardare al futuro dell’Italia nei prossimi cinquant’anni, la tengano pure abbassata. Purché aprano gli occhi.
La Stampa 29.10.10