Intervento di Pier Luigi Bersani e Relazione di Carlo Rognoni all’incontro del Forum Riforma del sistema radiotelevisivo.
Questa mattina presso la sede del Partito democratico si è svolto un seminario sulla riforma della Rai messa a punto dal PD.
Nel corso dell’incontro organizzato dal Forum presieduto da Carlo Rognoni il segretario del PD, Pier Luigi Bersani, è intervenuto sul tema del servizio pubblico.
I segretario del Pd, nel suo intervento, afferma che bisogna rompere alcuni anelli della catena, a partire dalla governance, dal reperimento delle risorse e dalla necessità di garantire che sul mercato non vi siano posizioni dominanti, in modo da favorire il pluralismo, che non deve riguardare solo il servizio pubblico.
L’intervento integrale di Pier Luigi Bersani.
Relazione di Carlo Rognoni Presidente del Forum Pd Riforma sistema radiotelevisivo.
Seminario su “il servizio pubblico nella società della comunicazione”
Prima di tutto un grande grazie ai nostri relatori che hanno contribuito a fare di questa mattinata un appuntamento di sicuro interesse e spessore.
A me tocca raccontarvi come il Pd intende muoversi nei prossimi mesi. E prima di tutto voglio dire che mi piacerebbe – prima di Natale – organizzare alcuni incontri con tutti quelli di voi che vorranno commentare, criticare, proporre idee e soluzioni alternative. Questo ci consentirà poi di lavorare a testi di legge per tradurre in proposte concrete – da sottoporre al parlamento – le diverse ipotesi lungo le quali abbiamo per ora deciso di muoverci e che andrò ad illustrare.
Con la presentazione del ddl Atto Camera N. 3629 che porta come prima firma quella del segretario Bersani (seguita da altre 96 firme di nostri deputati) abbiamo voluto lanciare un sasso nello stagno in cui di questi tempi galleggia malamente il servizio pubblico radiotelevisivo.
Sapevamo che fra Camera e Senato molte proposte di legge – anche più complete e più ambiziose – giacciono nei cassetti delle commissioni competenti. Se abbiamo voluto presentare una proposta nuova, semplice, di soli tre articoli, a firma del segretario del partito, è stato ed è per testimoniare la grande preoccupazione con cui il Pd guarda alla tormentata realtà della Rai, nella convinzione che non ci sia più tempo da perdere.
Con quel disegno di legge abbiamo voluto impegnarci su tre punti fermi.
Primo, il Pd crede fermamente nei richiami di tipo costituzionale che altri Paesi hanno più esplicitamente sottolineato nelle loro Carte. L’autonomia, l’indipendenza, il pluralismo sono valori che rivendichiamo, senza dei quali – o tradendo i quali – il servizio pubblico non esiste. Siamo sempre stati coerenti nel rispetto di questi valori? Temo di no. E’ la mia personalissima opinione che mi spinge a lavorare per un salto di qualità nel rapporto fra politica e media, fra partiti e Rai. Secondo, mai più ci presteremo a nominare un consiglio di amministrazione con le attuali regole. La legge Gasparri ha fatto il suo tempo e ha prodotto già abbastanza danni. Da qui la prima nostra proposta di un amministratore delegato come in tutte le società per azioni, sulla base delle norme del codice civile, sia pure scelto con un sistema di garanzia, vista la rilevanza politica che ha una azienda come la Rai. Il cambio della governance per noi è una priorità assoluta. Questa si coerente con la nostra volontà di mettere fine alla lottizzazione, che oggi – nell’interpretazione che ne dà il centro destra – è diventata l’occupazione del potere aziendale con una spartizione fra i partiti di governo.
Terzo, va ripensato il ruolo del servizio pubblico: non basta partire dagli effetti e dalle potenzialità delle nuove tecnologie che pure stanno cambiando lo scenario in cui operano tutti i broadcaster, occorre ripartire da una riflessione su come la composizione e i caratteri della società italiana siano cambiati e siano diversi da quelli in cui i principi del servizio pubblico furono elaborati e applicati alla Rai.
Dopo la nostra prima proposta di legge datata 14 luglio 2010, si sono susseguiti accadimenti e comportamenti aziendali – prima di tutto del direttore generale Mauro Masi – che hanno finito per esasperare sia i rapporti interni sia il vissuto della politica e dei telespettatori più accorti e sensibili.
Il nostro seminario, che pure si è riproposto di elaborare indicazioni di medio e lungo periodo, oggi non può ignorare la cronaca di questa fase della Rai. Una cronaca che ci convince ancor di più dell’emergenza (democratica, economica, tecnologica) da noi già denunciata nel presentare la proposta a firma Bersani.
“Il caso Ruffini”, “il caso Santoro”, “il caso Freccero”, “il caso Report”, da ultimo “il caso Saviano – Fazio”, ma anche “il caso Minzolini”, con in più il caso delle intercettazioni di Trani (che in un qualunque paese normale avrebbero costretto i protagonisti alle dimissioni), sono un rosario di episodi che ormai fanno parlare apertamente soprattutto di “un caso Masi”. In più sta crescendo la convinzione perfino in molti dirigenti della Rai che l’attuale direttore generale non sia all’altezza del compito, non sia in grado di garantire un controllo serio dei conti, di implementare il piano industriale, con il rischio che lo spettro di un buco di bilancio drammatico possa diventare realtà.
Per ieri e oggi è stato programmato un incontro con i sindacati, un altro incontro è previsto con l’Adrai, l’associazione dei dirigenti che è addirittura andata in Vigilanza per denunciare la totale mancanza di informazione sul piano industriale che proprio loro dovrebbero applicare. Domani l’Usigrai fa un primo incontro presso la Federazione nazionale della Stampa per denunciare le condizioni in cui versa la Rai (si pensi al recentissimo pronunciamento dell’Agcom sul Tg1) e dal 9 all’11 novembre è stato indetto addirittura un referendum fra tutti i giornalisti per sfiduciare il direttore generale.
Intanto – come succede ogni volta che la Rai entra nell’occhio del ciclone – l’invito a privatizzare l’azienda di viale Mazzini sta diventando quasi un ritornello. E’ una proposta rilanciata questa volta dai “finiani”, è un’idea ripresa da diversi editorialisti (Pierluigi Battista e Aldo Grasso su Il Corriere della Sera, Alessandro De Nicola su Il Sole 24 Ore, e uno dei titoli di Libero diretto da Belpietro è stato “Azzeriamo la Rai”).
Riparlare di privatizzazione, annunciare un progetto per vendere la Rai ai privati, vuol dire che sta crescendo in alcuni la convinzione che non ci sia più niente da fare per salvare la Rai da se stessa e dalla cattiva politica. E’ come voler ammettere che la Rai è arrivata al capolinea e non è più in grado di ripartire. Noi non siamo d’accordo. La proposta del gruppo che fa capo a Fini non ci convince. E non per ragioni ideologiche o di principio, ma soprattutto per ragioni pratiche e di democrazia nel sistema dei media. Ci è sembrata giusto una provocazione, una provocazione politica fatta più nei confronti di Sua Emittenza il premier (un uomo che ha sempre predicato di voler tenere bloccata la situazione della Rai, e che è sempre stato un sostenitore del duopolio, condizione che lo ha largamente favorito sul mercato delle risorse pubblicitarie) più che una reale prospettiva.
E intanto si avvicina il 2016 l’anno in cui scade la Convenzione Rai – Stato. E alcune domande storiche tornano di stringente attualità. Serve ancora un servizio pubblico? E la Rai è in grado di svolgere un servizio pubblico nell’epoca della cross medialità?
Di fronte a tutto quello che sta succedendo e che si va dicendo, qual è allora la posizione del Partito democratico?
Siamo convinti che “un servizio pubblico” serva e serva tanto più oggi che il sistema dei media sta attraversando una crisi profonda (perfino negli Stati Uniti, perfino al Congresso a Washington, si è incominciato a parlare di come garantire una informazione democratica e plurale). Il servizio pubblico è uno strumento essenziale nella democrazia e deve ritrovare un ruolo di apripista e di innovazione. Non è una riserva indiana, ma un laboratorio di sperimentazione e di indirizzo per “fare gli italiani”.
Siamo anche convinti che la Rai può garantire “un servizio pubblico” solo se cambia radicalmente. Da questa convinzione nasce la nostra prima proposta sulla governance.
Siamo anche convinti che in prospettiva il cambio della governance da solo non basti. Così come oggi non basta più parlare solamente di un nuovo direttore generale. Si pensi solo a chi oggi lo dovrebbe nominare. Ancora Berlusconi? Non ne ha azzeccata una! Anche se forse al punto a cui è oggi la Rai si potrebbe pensare che chiunque è meglio, che è difficile fare peggio!
Una nuova Rai ha bisogno di una missione ridefinita, di risorse certe, di più autonomia davvero nella gestione rispetto ai partiti, ma ha bisogno anche di una profonda riorganizzazione che rifletta i bisogni di servizio pubblico nell’era digitale, nell’era della cross medialità, delle tante nuove piattaforme di distribuzione.
E’ partendo da queste convinzioni che abbiamo lavorato per costruire e definire i compiti del Forum per la riforma del sistema radiotelevisivo.
Le prime proposte che oggi porto alla vostra attenzione, devono essere sottoposte al vaglio dei nostri parlamentari, vanno presentate ai sindacati dei giornalisti e non solo, per ricavarne suggerimenti, critiche, proposte di modifiche, devono servire anche ad aprire un grande e trasparente dibattito pubblico. Vorrei anche nei prossimi giorni riprendere una vecchia e buona abitudine di organizzare riunioni più ristrette per i necessari approfondimenti.
Parlerò di risorse, di organizzazione del servizio pubblico, di reti e contenuti, di indirizzi e controlli del sistema dei media e dunque del rapporto fra Vigilanza e Agcom. Quello che vi illustro è frutto di gruppi di lavoro e la responsabilità delle proposte che vi sottopongo per ora è solo mia. Se vi sembrano troppo conservatrici o al contrario troppo innovative, per ora è solo con me che bisogna prendersela! Non ancora – nel bene e nel male – con il partito democratico. Solo dopo aver filtrato queste idee con i parlamentari, le associazioni della società civile interessate, con i sindacati, con il mondo delle aziende dei media, queste proposte verranno portate all’attenzione del segretario del partito per una decisione.
Molte delle cose che dico non sono farina del mio sacco. E tuttavia pur avendo fatto del gran “copia e incolla” mi assumo tutta la responsabilità di quello che dico. Alcuni di voi che sono presenti magari riconosceranno frasi che hanno scritto, pensieri che mi hanno mandato. Non li cito di proposito primo perché non sono autorizzato a farlo, e poi perché magari sono fuori contesto rispetto a quello che mi hanno scritto o detto.
Le risorse, il canone, la pubblicità, il pay e la riorganizzazione strutturale della Rai.
Partiamo dal fondo, dalle conclusioni a cui sono arrivati i nostri esperti, professori universitari, ricercatori, consulenti aziendali, dirigenti d’azienda.
Nel corso dell’incontro del 14 giugno avevamo avviato un approfondimento sulle risorse economiche del servizio pubblico. Il principale indirizzo che avevamo dato al gruppo di lavoro era quello di un affrancamento della Rai dalla dipendenza dalla pubblicità, compensata da un aumento delle risorse pubbliche grazie a un meccanismo di recupero dell’evasione del canone.
Avevamo anche invitato però gli esperti a considerare con attenzione gli effetti collaterali sul sistema radiotelevisivo di questa impostazione e ad approfondire eventuali altre strade che raggiungessero comunque il risultato di un rafforzamento del carattere distintivo del servizio pubblico.
Il lavoro dei diversi gruppi che si sono riuniti a Milano e a Roma ha coinvolto molti dei principali esperti di economia dei media. Il risultato di questo lavoro è univoco e, a mio avviso, convincente.
La consultazione degli esperti ha confermato il punto di partenza dei lavori del Forum il fatto cioè che l’attuale mix di ricavi della Rai non consente all’azienda né di restituire “valore pubblico” in misura che giustifichi il finanziamento da canone, a causa del forte condizionamento pubblicitario, né di competere nella raccolta pubblicitaria, a causa degli affollamenti ridotti.
Si sommano insomma una perdita di identità distintiva e una crisi di bilancio, che è certo aggravata da un vertice aziendale non adeguato ed eterodiretto, ma ha cause strutturali.
La improcrastinabile modifica di questa struttura dei ricavi, però, non deve prescindere dagli effetti sull’intero sistema televisivo. Un semplice ribilanciamento più canone e meno pubblicità, che era la traccia di lavoro dalla quale eravamo partiti, può forse tutelare meglio la missione di servizio pubblico, ma non garantisce un aumento del pluralismo e della competitività del sistema.
Il modo migliore per perseguire entrambi gli obiettivi consiste nella separazione societaria – all’interno di una holding pubblica – delle attività finanziate da risorse pubbliche da quelle finanziate con risorse private.
La “Rai commerciale” deve agire sul mercato con le stesse regole degli operatori privati, ivi compresi la possibilità di attività pay e i tetti agli affollamenti orari. A questa azienda commerciale , sull’esempio della Channel4 britannica, è affidato come obiettivo pubblico quello di fungere da factory dell’industria dell’audiovisivo, eventualmente con quote più incisive riservate ai produttori indipendenti.
L’azienda finanziata con risorse pubbliche è la società incaricata del servizio pubblico radiotelevisivo; produce, distribuisce e rende disponibile su tutte le piattaforme (tv terrestre e satellitare – radio – internet) programmi lineari e non lineari, tra i quali almeno un canale lineare tv e uno radiofonico a vocazione nazionale, generalista e destinato a un largo pubblico.
In ambiente multicanale digitale non è significativo stabilire quanti canali debbano essere trasmessi. Decisivo è invece fissare l’ammontare delle risorse destinate all’azienda incaricata del servizio pubblico.
L’intervento di Claudio Cappon e la comunicazione di Matteo Maggiore indicano l’impatto drammatico della rivoluzione digitale sui servizi pubblici europei. Particolarmente critica è la situazione della Rai – deformata prima dall’equilibrio tripartito della prima repubblica e poi dalla simmetria pubblico-privato della legge Mammì. Per la Rai in modo particolarmente accentuato alcune missioni sono diventate ridondanti, altre sono sguarnite. La moltiplicazione dell’offerta terrestre, satellitare e soprattutto via internet da una parte sgrava il servizio pubblico dall’esigenza di trasmettere tre canali generalisti a largo ascolto, dall’altra lo responsabilizza ad avere una programmazione specifica per tutte le piattaforme. Questo riorientamento delle missioni di servizio pubblico in epoca digitale non consente un taglio delle risorse pubbliche ad esso destinate.
Gli esperti che abbiamo consultato ritengono che l’insieme delle attività di servizio pubblico debba assorbire risorse pubbliche in misura corrispondente all’attuale ammontare del canone.
Un recupero dell’evasione –con l’inserimento nella dichiarazione dei redditi di una tassa di scopo legata alla residenza familiare – consente una imposta nominale per famiglia del 25% inferiore a quella attuale. Nello studio sugli aspetti fiscali si prevede di esentare del tutto dal pagamento dell’imposta 5 milioni di famiglie con il reddito più basso e di ridurre l’imposta per le altre 17 milioni di famiglie di 18 euro rispetto all’attuale canone.
Una ulteriore forte riduzione della imposta a carico delle famiglie può derivare dal recupero dell’evasione del canone dovuto dalle aziende e dall’innalzamento dei ricavi erariali da occupazione delle frequenze, ciò che peraltro incentiva un uso più efficiente dello spettro. Poco realistico, anche se seducente, il progetto avanzato di un recupero dell’evasione attraverso il legame del canone alla bolletta elettrica.
Eccovi alcuni dati:
1) L’evasione delle famiglie nel 2010 e’ di 640 milioni
2) L’evasione di imprese, studi professionali, banche, enti, cliniche, ecc. e’ di 800/900 milioni (96 per cento)
3) Per riscuotere con le bollette ci vuole una legge che inverta l’onere della prova: per lo Stato se tu famiglia hai un contratto di energia elettrica vuol dire che hai anche la tv, oggi e’ l’utente che dichiara il possesso e se evade lo Stato ha strumenti debolissimi per accertarlo; Seconda obiezione il numero abnorme di società elettriche con cui la Rai dovrebbe stipulare convenzioni per la riscossione;
4) Far pagare il canone speciale si può invece far subito: bastano rigide direttive dell’agenzia dell’entrate. In un recente sondaggio su mille imprese fatto dall’Associazione Contribuenti l’83 per cento risponde: non pago il canone perché la prova del pagamento non è richiesta durante le verifiche fiscali. C’e’ da considerare infine che il canone speciale e’ interamente detraibile e quindi i soggetti interessati hanno poco interesse ad evaderlo;
5) In Germania il nuovo progetto prevede una rigida applicazione secondo una tabella in relazione alla dimensione dell’impresa, perché si presume anche che tutte le imprese o gli uffici oggi siano dotati di computer e la tv si vede ormai anche attraverso i computer;
Queste considerazioni sono state avanzate ormai da mesi sia in Cda che con articoli e interviste dal consigliere Nino Rizzo Nervo.
Anche dopo la separazione dall’azienda commerciale, l’azienda incaricata del servizio pubblico mantiene in questo modo risorse più che sufficienti per realizzare più canali, con un ascolto complessivo ampiamente superiore al 20%.
Si è discusso degli incentivi necessari affinché questa azienda mantenga una adeguata dotazione di competenze, marchi, contratti e programmi. Ciò è in parte garantito dalla consistente dotazione di risorse economiche, ma può essere rafforzato con meccanismi che disincentivino dal concentrarsi su programmi di nicchia, di costo elevato ma scarso audience. La soluzione individuata consiste nel legare i ricavi variabili della holding non solo all’ascolto dell’azienda commerciale ma anche a quello dell’azienda di servizio pubblico. In tale modo si possono anche rassicurare gli editori di carta stampata che sia sterilizzata ai fini pubblicitari una elevata quota di ascolto televisivo, ciò che oggi avviene confusamente con gli affollamenti ridotti della Rai.
La proposta di Legge deve definire le linee generali della missione dell’azienda incaricata del servizio pubblico e di quella a vocazione commerciale, ma senza entrare nel merito della distribuzione tra le due società dei marchi, dei magazzini, dei contratti e dei servizi comuni. Tale dettaglio è demandato a un piano che viene presentato in tempi definiti dalla stessa Rai (dall’ Amministratore delegato, nella proposta di governance presentata dal PD)
Una corretta gestione a livello di holding della ricollocazione delle risorse e dei fattori produttivi tra le due aziende, consente alla Rai non solo di recuperare il suo deficit ormai strutturale, ma di svolgere meglio sia l’attività di servizio pubblico, sia la concorrenza sul mercato della raccolta pubblicitaria.
Potremmo fermarci qui, perché già questo sarebbe un enorme passo in avanti, con un vero servizio pubblico e una concorrenza ad armi pari nel mercato della pubblicità tra un’azienda privata ed una pubblica.
In particolare l’incontro degli economisti che si è svolto a Milano ha sottolineato però anche la esigenza del pluralismo esterno, che può definirsi solo se nel mercato della raccolta pubblicitaria ci sia lo spazio per almeno un altro soggetto privato, come peraltro avviene in tutti i paesi europei.
Per realizzare questo obiettivo in ambiente multicanale digitale, l’ipotesi al tempo stesso più efficace e meno invasiva sulla libertà di impresa consiste nella fissazione di una soglia oltre la quale l’audience realizzata da un singolo editore – o da una singola concessionaria pubblicitaria – danneggia il pluralismo esterno. L’esempio tedesco costituisce un riferimento convincente.
Non si ritiene però necessario fissare un tetto assoluto, che impedisca la crescita interna o comporti la dismissione di reti, ciò che nella situazione italiana rischierebbe di trasformarsi in “grida” alle quali non seguono provvedimenti concreti. L’editore o la concessionaria che in un determinato intervallo temporale supera la soglia dovrà invece ridurre gli affollamenti per un periodo corrispondente successivo, in misura almeno proporzionale.
Non nascondiamocelo: sia la proposta sulla Rai, sia quella sulla soglia agli ascolti non sono destinate a trovare consenso da parte di chi difende gli interessi di Mediaset (o almeno i suoi interessi a breve, perché nel medio periodo la concorrenza stimola le imprese televisive a entrare in mercati contigui e a internazionalizzarsi).
Publitalia si troverebbe a competere da subito ad armi pari con l’azienda Rai a vocazione commerciale e in prospettiva anche con un altro privato. Agli economisti che abbiamo interpellato non abbiamo posto il problema di una riforma che sia benvoluta dall’operatore che oggi domina il mercato, ma di una riforma efficace, che libera il servizio pubblico e rafforza la concorrenza nei singoli mercati, senza impedire a nessuna azienda di crescere in mercati contigui.
Anzi molti esperti hanno notato che Mediaset può svolgere una funzione importante nella tv su internet e già oggi svolge un ruolo pro competitivo in quella a pagamento.
Il mercato della televisione a pagamento non ha la stessa rilevanza della televisione in chiaro ai fini del pluralismo e in questo mercato si è registrata comunque una tendenza a una maggior concorrenza grazie agli impegni che la decisione Monti ha imposto a Sky. Questa contendibilità del mercato pay va però mantenuta anche quando tra un anno tali impegni scadranno. A quel punto i rapporti di forza e le convenienze aziendali potrebbero anche portare a un patto di non belligeranza tra chi domina il mercato della pubblicità e chi domina la tv a pagamento. Murdoch sa fare la guerra, ma sa fare anche gli accordi.
Non si può prorogare il divieto di operare su altre piattaforme al di là dei limiti temporali della decisione Monti. Se necessario si può però immaginare di prolungare il divieto di acquisto di esclusive per tutte le piattaforme o l’obbligo di rivendita dei contenuti premium alle altre piattaforme – peraltro previsto in altri paesi europei.
Gasparri e i suoi ispiratori avevano inventato il SIC: un mare magnum all’interno del quale ciascuno è signore sul suo mercato. Le proposte che vengono dal nostro mondo – e che io trovo convincenti – sono l’esatto contrario: a partire da una radicale riforma della Rai, un servizio pubblico riconoscibile e un aumento della concorrenza e del pluralismo in tutti i comparti dell’industria televisiva.
Ebbene come siamo arrivati a questo tipo di proposta? In parte l’ho già detto. Siamo partiti anche dalla emergenza economica che vede la Rai dibattersi fra piani di dismissioni, di vendite di immobili, di esternalizzazioni contrastate. E siamo anche partiti dalla convinzione che un servizio pubblico fatto di tre reti generaliste più dieci reti digitali terrestri, con una piattaforma satellitare free, con davanti la sfida di internet, del web e della banda larga, non sia in grado di raccogliere risorse sufficienti per fare bene il suo mestiere. Non si può pensare di aumentare di quanto sarebbe necessario il canone, che viene vissuto come una tassa fastidiosa.
Ci eravamo dati come terreno di lavoro un’idea apparentemente semplice: se noi fiscalizzando il canone riuscissimo a recuperare almeno 500 milioni di euro, forse potremmo ridurre della stessa quantità la pubblicità. E fare in modo che il mercato della pubblicità televisiva oggi strozzato da Mediaset (60 per cento) e Rai (27 per cento) ritrovasse una tale quantità di risorse da poter consentire vuoi la nascita di un quarto polo, a fianco di Sky, Mediaset e Rai, vuoi comunque lo sviluppo di newco per la produzione e la distribuzione di contenuti nel mondo della cross medialità.
Questa ipotesi al vaglio dei nostri esperti è caduta. In Francia il presidente Sarkozy che aveva pensato di togliere la pubblicità dal servizio pubblico e mettere una tassa sulle altre tv commerciali e sulle tlc, si è dovuto arrendere all’evidenza: tolta la pubblicità dal prime time, quegli spot non sono finiti da nessuna parte, quegli investimenti si sono persi.
Per noi – ma in Europa non solo per noi – le risorse del servizio pubblico devono:
Non esiste soluzione perfetta, e occorre valutare i pro e i contro dei sistemi esistenti.
Il dibattito sul finanziamento del servizio pubblico è assai vivo in tutta Europa, con approcci e motivazioni diverse. In diversi Paesi scandinavi si discute dell’adattamento del canone all’era digitale attraverso la sua trasformazione da “tassa televisiva” a « tassa per i media », ricevibile per il possesso di qualsiasi apparecchio capace di captare segnali radio o tv. In Germania, la risposta all’incertezza generata dalla multimedialità è la decisione di passare, nel 2013, dal canone televisivo a un’imposta destinata al finanziamento del servizio pubblico radio tv riscossa su tutte le abitazioni, indipendentemente dalla presenza di apparecchi riceventi.
La pubblicità non e’ risorsa ideale per il servizio pubblico. Crea e rafforza incentivi del tutto simili a quelli che guidano la programmazione dei canali commerciali. Se si dipende dall’introito pubblicitario, ci sono cose che, semplicemente, non si possono fare. Per fare solo uno tra i molti esempi di documentari di storia naturale prodotti dalla BBC, non si possono investire miliardi di vecchie lire in “Blue Planet”, una serie di documentari sugli oceani che richiedono anni di lavorazione e l’invenzione di nuovi tipi di telecamere e strumenti di misurazione ed immersione, con la prospettiva di attrarre non gli 800.000-1.000.000 di spettatori che costituiscono l’audience tipica dei documentari di scienze naturali, ma magari 3 milioni su un periodo di diverse settimane, portando le domande di iscrizione alla facoltà di oceanografia di una tranquilla cittadina costiera del nord dell’Inghilterra da 15 a 1500 nei mesi successivi alla programmazione. Il 10-12% di audience per un documentario è un grande successo di pubblico per chi voglia attrarre nuovi spettatori a un genere che, pur restando minoritario, può crescere favolosamente (in termini relativi) nella coscienza del pubblico. Ma per un pubblicitario quella cifra rappresenta un fallimento. Non parliamo poi dell’investimento necessario a una rete internazionale di corrispondenti. (Il capo di una rete televisiva americana diceva a colleghi della BBC recentemente: “Le notizie internazionali costano care da produrre e non interessano il pubblico americano – troppo distanti, difficili e generatrici di ansia impotente. Tutti i giornali e i broadcasters stanno disinvestendo. Tra poco rimarranno solo Reuters, AP e voi.”) Se la BBC dovesse finanziare la rete di corrispondenti con la pubblicità, farebbe scelte diverse.
Una modesta presenza di pubblicità può aiutare un servizio pubblico a mantenere il canone leggermente più basso senza esercitare un’influenza decisiva sulla programmazione. Ma se la pubblicità supera una soglia marginale, il DNA di un servizio pubblico muta pericolosamente, alimentando una spirale negativa che può essere fatale: se incentivi e programmi diventano troppo simili al settore commerciale, come rispondere a chi considera l’investimento pubblico al meglio uno spreco?
Altre idee si sono andate confrontando. Per esempio quella di un «Fondo di servizio pubblico ». Equivale a dire: se del servizio pubblico vogliamo i contenuti, perché non sostituire l’istituzione di servizio pubblico con un fondo accessibile a tutti i media privati per la produzione di programmi di servizio pubblico? Il vantaggio sarebbe quello di rimuovere grandi aziende a finanziamento pubblico che occupano ingenti porzioni di mercato a danno del settore commerciale, con beneficio di quest’ultimo e risparmio in burocrazia.
Nel mondo le esperienze di fondi aperti sono poche e speciali. In Canada, Paesi Bassi ed Irlanda esistono fondi pubblici cui i produttori possono far ricorso per produrre programmi televisivi o film. In Canada e Irlanda (dove il fondo e’ finanziato attraverso il canone), i fondi si concentrano su programmi di interesse culturale specifico e minoritario (ad esempio, in lingua Irlandese o di argomento pertinente alle minoranze etniche). Nei Paesi Bassi lo spettro di programmi finanziabili è più ampio (“programmi artistici di alta qualità”) ma i finanziamenti possono andare esclusivamente a broadcaster di servizio pubblico o, nel solo caso della pre-produzione, a produttori che ne abbiano l’accordo e il sostegno per la produzione. In Danimarca il fondo di produzione e’ finanziato con il canone, ma solo al di sopra del tetto di attribuzione del canone stesso al servizio pubblico DR (il finanziamento massimo del servizio pubblico e’ fissato a un livello inferiore a quello della raccolta del canone), ed e’ limitato al finanziamento di programmi culturali di nicchia.
L’unico esempio di sostituzione di un servizio pubblico con un fondo accessibile a tutti i broadcaster e’ quello della Nuova Zelanda, dove il broadcaster pubblico e’ pienamente commerciale sia nel finanziamento che negli obiettivi (profitto per le finanze pubbliche), e il Governo finanzia un fondo di produzione accessibile a tutti gli operatori per la produzione di programmi nazionali. L’esperimento e’ largamente giudicato negativo: in Nuova Zelanda l’investimento pro capite in produzione originale e’ crollato a livelli tra i più bassi del mondo. Inoltre, broadcaster commerciali producono alcuni programmi di servizio pubblico, ma solo quelli che possono rientrare in logiche e palinsesti commerciali.
Oltre a parlare di come intervenire sul canone, si parla di fiscalizzazione e qui il dibattito tocca un punto molto sensibile. Il problema essenziale del finanziamento fiscale è il negoziato diretto e essenzialmente annuale con il Governo. L’esperienza in Paesi dove il servizio pubblico dipende in parte o del tutto dal finanziamento fiscale (Islanda, Paesi Bassi, Belgio, Spagna) il negoziato con il Governo è difficile, legato a scelte editoriali del momento, generatore di instabilità, e porta generalmente alla riduzione del finanziamento del servizio pubblico.
Nessuno di questi sistemi è perfetto. Rispetto ai parametri elencati all’inizio, occorre tenere presente:
La separazione fra operatore di rete e fornitore di contenuti.
E’ questo il tema su cui si è misurato il secondo gruppo di lavoro. E’ possibile, ha senso, è giustificato immaginare una separazione societaria e proprietaria fra la Rai fornitore di contenuti e la Rai operatore di rete? Personalmente sono convinto che un operatore di rete pubblico che disponga anche delle frequenze per la banda larga mobile sia in grado di garantire accessi a tutti gli imprenditori che li richiedano e sia in grado di aiutare il sistema paese a modernizzarsi, recuperando parte del tempo perduto.
E tuttavia su questo aspetto che io penso debba essere normato al più presto, il gruppo di lavoro non ha raggiunto conclusioni certe e definitive, tali comunque da consentirmi di essere qui oggi a esporvi anche un intervento legislativo. La materia è complessa se vogliamo per due ordini di motivi: uno nasce dalle perplessità e dalle preoccupazioni di una parte dell’azienda Rai, soprattutto della parte sindacale che teme la svendita di un patrimonio; un’altra ragione della prudenza di oggi è legata al momento di transizione dall’analogico al digitale che stiamo vivendo e che ancora non ha raggiunto quei punti fermi che potranno esserci in pratica e non solo teoricamente dopo il 2012. Il risultato è che oggi c’è un braccio di ferro fra televisioni locali e ministero, c’è uno scontro di fronte al quale per pronunciarci con determinazione e con in mente l’interesse generale dobbiamo affrontare una fase di ulteriore approfondimento.
Certo è che l’attuale processo di transizione al digitale terrestre prefigura la possibilità di immaginare che nel 2013 la prima fase di “bonifica” dell’etere italiano sarà compiuta.
Oggi diventa pertanto indispensabile cominciare a discutere e a predisporre gli strumenti normativi che potranno consentire un pieno raggiungimento degli obiettivi di normalizzazione dell’etere e di effettivo pluralismo, obiettivi che sono finalmente a portata di mano dopo trent’anni di far west.
La legge Gasparri conteneva una serie di disposizioni transitorie che in sostanza traghettano nel nuovo scenario digitale una ipotesi che si rivelerà presto insostenibile: tutti gli editori televisivi analogici sono anche automaticamente operatori di rete oltre che fornitori di servizi di media audiovisivi (fornitori di contenuti).
Inoltre la licenza d’uso per operatore di rete televisivo (ora trasformata in autorizzazione generale) incorpora anche il diritto a trasmettere i propri contenuti in digitale.
Forse non si poteva far altrimenti ma non è credibile che il mercato italiano possa in futuro sostenere l’attività di oltre 500 operatori di rete fra nazionali e locali.
Oggi in ciascuno dei grandi paesi europei si va da un minimo di 1 ad un massimo di 7 o 8 operatori di rete, dei quali uno o due dominanti a livello nazionale e tre o quattro a livello locale.
Il caso italiano è il portato di una stagione che è indispensabile archiviare e che ha visto gli editori televisivi impossessarsi delle frequenze televisive (risorsa scarsa e bene pubblico), considerandole poi un bene patrimoniale della propria azienda ed in alcuni casi iscrivendole addirittura a bilancio.
Questa cultura ha pervaso sia le piccole che le grandi imprese televisive, finanche la Rai.
Lo stato italiano ha finalmente la possibilità di rientrare in possesso di quella porzione dello spettro elettromagnetico della quale aveva di fatto perso il controllo, ed iniziare a prefigurarne una gestione ordinata ed ottimizzata, anche al fine di poter arrivare a mettere all’asta quella parte dello spettro (i canali Uhf 61-69) che in tutti i paesi europei sarà destinata ai servizi in mobilità.
Solo separando effettivamente, anche a livello locale, con un adeguamento normativo, l’attività di operatore di rete da quella di fornitore di servizi di media audiovisivi si potrà creare un mercato aperto e pluralista limitando fino a cancellare del tutto le manie passatiste di “controllo dell’etere” che ancora pervadono la cultura degli editori nazionali e locali. E si aprirà
anche in Italia un vero mercato per gli imprenditori che riterranno di fare il mestiere di operatore di rete televisivo.
Ponendo così fine all’eccezione italiana in Europa: siamo il solo paese a lasciare all’operatore di rete il compito di scegliere i fornitori di contenuto che potranno irradiare (certo oggi è prevista la cessione del 40% della capacità trasmissiva dei grandi operatori nazionali integrati, ma i controlli…)
Anche le funzioni dell’Agcom e del Ministero dello Sviluppo Economico in questo specifico settore potrebbero essere razionalizzate. Il settore della distribuzione digitale via satellite e via cavo ha già assimilato e messo in pratica il concetto di terzietà e neutralità della rete rispetto ai contenuti; in tutti i paesi europei anche la distribuzione digitale terrestre è così organizzata; con un altro piccolo-grande sforzo anche il mercato del nostro paese potrà infine normalizzarsi.
Infine l’editore digitale di servizio pubblico dovrà accettare di misurasi con la normalità di un sistema di comunicazione che esige la massima diffusione possibile dei propri contenuti su tutte le diverse piattaforme digitali operanti sul mercato. Questa sarà la missione principale: fornire un servizio universale effettivo, non solo potenziale.
Se le frequenze televisive torneranno ad essere un bene pubblico e non più un patrimonio aziendale al quale aggrapparsi, non sarà più necessario tenersi in pancia un’azienda come RaiWay che potrà essere meglio valorizzata (ad esempio sul modello inglese).
L’utilizzo delle frequenze per servizi televisivi è sempre stato mal governato in Italia: Possiamo permetterci che oggi con il passaggio al digitale terrestre quella che dovrebbe essere una grande opportunità si trasformi in un ulteriore fallimento?
La prima scelta critica è stata l’assegnazione “a tavolino” delle frequenze digitali ai soggetti già operanti nel settore con un criterio sostanzialmente di 1 rete analogica = 1 frequenza digitale.
L’unica rete non confermata alle emittenti nazionali secondo tale criterio potrà essere da questi facilmente riconquistata tramite il meccanismo di beauty contest in cui aspetti quali l’esperienza del settore potranno certamente essere vincenti.
Il fenomeno di accaparramento è dunque continuato anche per le frequenze digitali, forse anche aggravato dalla possibilità di acquistare impianti e frequenze sul mercato (trading) che ha consentito ai due principali operatori di incrementare il proprio patrimonio frequenziale.
Ma è questo l’unico modello possibile? E quali sono le conseguenze di tale scelta?
In altri paesi europei e non il passaggio al digitale è stato attuato non già prendendo a riferimento la frequenza ma garantendo agli editori una continuità di trasmissione dei contenuti. Ciò ha comportato una radicale riduzione delle risorse frequenziali necessarie a garantire la continuità delle trasmissioni già attive nell’analogico ed ha rimesso nelle mani dello Stato la gran parte dello spettro su cui operare le scelte di futuri utilizzi. Questo è il reale dividendo digitale di cui una parte è stato assegnato per ampliare la banda delle trasmissioni televisive digitali ed un’altra per sviluppare i servizi in mobilità anche con l’entrata degli operatori di telecomunicazione. In entrambi i casi si sono seguite procedure competitive eque e si è ottenuto un guadagno per lo stato.
L’assegnazione a tavolino, come diritto acquisito e la liberazione di soli 5 canali da utilizzare esclusivamente per la televisione digitale, avvenuta in Italia, oltre a consolidare le posizioni dominanti già presenti nel mondo analogico ha comportato l’impoverimento delle casse dello Stato che – contrariamente agli altri Paesi – non ha fino ad oggi ricavato alcun provento da uno sfruttamento di un bene pubblico da parte di soggetti privati.
Fino ad oggi lo switch off regionale è stato ottenuto tramite assegnazioni temporanee dei canali – tutti quelli disponibili nello spettro televisivo – ad operatori nazionali e locali. Ma cosa accadrà quando si dovrà procedere alle assegnazioni definitive?
A livello internazionale l’Europa chiede l’armonizzazione dell’utilizzo dei canali della banda a 800 MHz (canali da 61 a 69) per servizi in mobilità. Per ottenere il reale dividendo digitale nella banda 800MHz a vantaggio dei servizi in mobilità sarà necessario togliere risorse alle televisioni.
La perdita di incassi per lo Stato italiano oltre a tutelare rendite di posizione conquistate nel mondo analogico in modo poco trasparente, comporterà la perdita per l’Italia di un tesoretto che altri paesi invece ricaveranno dalle aste e che utilizzeranno per l’ammodernamento tecnologico del paese. In Germania ad esempio l’asta per l’assegnazione delle frequenze conclusa lo scorso maggio 2010 ha portato al governo 4,3 miliardi di euro (investiti da Vodafone, T-Mobile e O2) per poter sviluppare la propria rete 4G, e portare i collegamenti broadband nelle aree più svantaggiate.
In Italia, se non vogliamo rimanere indietro rispetto agli altri paesi, oltre a soddisfare l’esigenza di un uso efficiente e razionale dello spettro sarà necessario apportare un aggiornamento del piano di ripartizione applicando pienamente principi di flessibilità quali la neutralità dei servizi e delle tecnologie. Solo in tal modo potranno essere sviluppati servizi innovativi in grado di superare con il tempo anche il problema del pluralismo dell’informazione.
L’analisi dei modelli di conversione delle reti da analogico a digitale avvenuti negli altri paesi porta alcuni spunti di riflessione anche sull’assetto organizzativo delle società del settore televisivo.
Il successo del modello internet e la diffusione della tecnica di trasmissione digitale separa infatti l’operatore di rete dal fornitore di contenuti, rendendo più flessibile l’accesso al mercato dei contenuti.
In Italia il regolamento Agcom prima e la legge Gasparri poi hanno introdotto un principio di separazione societaria nel passaggio al digitale che però non ha portato i benefici attesi.
Pur essendo separati infatti resta forte il controllo della parte legata ai contenuti rispetto alla società titolata all’utilizzo delle frequenze, mantenendo di fatto i benefici da integrazione verticale già sfruttati nel mondo analogico soprattutto a fini anticompetitivi.
Una riflessione seria per conseguire risultati non solo sul piano dell’efficienza tecnica ma anche su quello della concorrenza e del pluralismo, potrebbe essere svolta sull’adozione di un assetto di mercato che faccia confluire in un’unica società, pubblica, tutte le risorse frequenziali e le reti, messe poi a disposizione dei fornitori di contenuti sulla base di logiche di mercato.
Tale modello analogo all’assetto attualmente presente ad esempio in Francia garantirebbe a tutti i fornitori di contenuti pari opportunità in termini di copertura dell’utenza potenziale, di caratteristiche trasmissive delle frequenze (le reti digitali non sono tutte uguali sul piano trasmissivo ad esempio per effetto dei fenomeni interferenziali presenti in alcune sottobande ed in altre no).
Con tale modello sarebbe anche eliminato il fenomeno dell’accaparramento a fini anticompetitivi e si potrebbe introdurre un giusto ed equilibrato compenso per lo sfruttamento della capacità trasmissiva proporzionato alla quantità di contenuti effettivamente trasmessa (si eviterebbero ad esempio le doppie o triple trasmissioni del medesimo programma che occupano inutilmente capacità).
Il Servizio Pubblico – secondo molti di noi – non deve essere caratterizzato esclusivamente in termini di qualità e varietà dei contenuti che offre ma deve avere anche un ruolo importante nell’innovazione tecnologica e coltivare la capacità di raggiungere i suoi utenti su tutte le piattaforme tecnologiche. Il termine Servizio Pubblico dovrà, sempre di più, avere il significato di Servizio Universale “multipiattaforma”, ovvero lo strumento per assicurare a tutti i cittadini la possibilità di fruire dei contenuti del servizio pubblico, in ogni località del Paese e qualunque sia la tecnologia utilizzata per l’accesso (broadcasting televisivo terrestre e satellitare, banda larga fissa o mobile, radio).
L’integrazione del marchio televisivo con la modalità di trasporto ha prodotto in Italia una totale identificazione del broadcaster con una specifica modalità di ricezione. I broadcaster, nazionali o locali, si ritengono “proprietari” di un canale (bene pubblico) sul quale hanno finora veicolato il proprio marchio.
Questo fenomeno, assieme alla possibilità di “monetizzare” la cessione di una frequenza consentita dalla legge 66 del 2001 e dalla Gasparri ha reso e rende molto difficile la transizione allo scenario digitale. Ogni broadcaster pretende di conservare le proprie frequenze finora utilizzate per le trasmissioni analogiche senza tener conto che nel nuovo scenario digitale un canale è in grado di trasportare fino a 6 programmi con la tecnologia DVB-T e fino a 15 con la nuova tecnologica DVB-T2 che è già disponibile e verrà utilizzata in Gran Bretagna a partire dalle Olimpiadi del 2012.
Recenti dati del Ministero delle Comunicazioni indicano che, nelle aree “all-digital” (Sardegna, Piemonte, Trentino, Lazio e Campania) le emittenti nazionali utilizzano, in modalità DVB-T, il 71% della capacità trasmissiva a loro disposizione e le emittenti locali solo il 54%.
Nel 2012, con il passaggio al DVB-T2 e a parità di programmi (come è ragionevole immaginare visto che realizzare nuovi programmi costa molto) questi numeri diventeranno, rispettivamente, il 35% e il 20%. Si tratta di un vero e proprio “spreco” di una risorsa pubblica.
Uno “spreco” la cui dimensione economica può essere immediatamente valutata confrontando la situazione italiana con quella degli altri paesi europei che hanno ripartito il dividendo generato dall’aumento della capacità trasmissiva tra i “broadcaster” televisivi e la “banda larga mobile”. La Germania, ad esempio, ha messo all’asta 60 MHz (circa 7 canali) di banda ex-televisiva ricavandone, nello scorso maggio, 3.3 miliardi di euro (500 milioni di euro circa per canale).
Dunque, le emittenti televisive (nazionali e locali) pretendono di occupare in modo sostanzialmente gratuito una risorsa pubblica preziosissima.
Le emittenti locali dichiarano: “noi vogliamo essere operatori di rete e non soltanto fornitori di contenuti”. La vera motivazione per questa strenua difesa dell’integrazione verticale è quella di difendere il vero “asset”: la “proprietà” delle frequenze. Difesa finalizzata ad una futura monetizzazione di una risorsa, si noti bene, ricevuta gratuitamente dallo Stato in nome del “pluralismo”.
Tutto questo mentre l’evoluzione tecnologica cambia la definizione stessa di piccolo o medio “broadcaster”. Nessun operatore con meno di 6 programmi diversi da trasmettere (15 nel 2012 con il DVB-T2!) avrà interesse economico a gestire in proprio una rete di trasmissione. Inoltre, fino a che esisteranno 40 o più “multiplex” in ogni area di servizio anche il mercato della capacità trasmissiva “in affitto” sarà poco profittevole. Dunque, il mercato e la tecnologia cancelleranno presto le motivazioni economiche per l’integrazione verticale (almeno quelle lecite).
Questa tendenza alla “conservazione” delle frequenze ha avuto, fortunatamente, uno stop dalla Commissione Europea che ha minacciato l’apertura di una procedura di infrazione a carico dell’Italia proprio per la possibilità, garantita dalla legge Gasparri, di una transizione 1-a-1: una frequenza analogica = un “multiplex” digitale.
Per rispondere a questa procedura di infrazione, l’Agcom ha predisposto un Piano Nazionale delle Frequenze. Il Piano Agcom non esclude la possibilità di riservare risorse alla banda larga mobile ma questa possibilità sarà fortemente condizionata dalla capacità del Ministero (al quale spetta la responsabilità di assegnare le frequenze alle emittenti) di resistere alle richieste delle emittenti locali per una assegnazione che vada oltre il terzo previsto dalla legge (e dal Piano)
Per quanto riguarda la Rai va detto che essa ottiene la disponibilità dello spettro grazie al Contratto di Servizio e non potrebbe mai cedere, come fanno le emittenti locali, i diritti d’uso sulle frequenze delle quali dispone ad emittenti non vincolate al Contratto di Servizio. In altri termini, la “monetizzazione” degli “asset” spettrali della Rai non è impossibile ma richiede leggi e decisioni istituzionali e non può essere realizzata con le stesse modalità delle emittenti locali o delle altre emittenti nazionali.
La Rai non ha dunque nessun interesse a rivendicare, come le altre emittenti (e insieme alle altre emittenti), una integrazione verticale tra i ruoli di operatore di rete e fornitore di contenuti. Piuttosto, la RAI ha tutto l’interesse che i due ruoli vengano distinti attraverso una separazione in una Società dei contenuti e in una Società della rete e che entrambe le società abbiano la natura di Servizio Pubblico. La Società della Rete potrebbe conservare gli “asset” tecnologici (siti, tralicci, rete di trasporto) per altro bisognosi di un grande intervento di modernizzazione e rilancio, e gli “asset” frequenziali.
La Società della Rete potrebbe fornire il servizio di trasporto a tutti i piccoli e medi “broadcaster” che, a causa dell’evoluzione tecnologica e dell’aumento della capacità trasmissiva per canale, non avranno l’interesse economico a gestire in proprio una rete di trasporto e saranno inevitabilmente costretti a trasformarsi in fornitori di contenuti. La Società della Rete, infine (ma questo è davvero un sogno) potrebbe costituire la gamba “wireless” di una Società della Rete di Nuova Generazione finanziata dalla Cassa DDPP e che fornisca connettività a tutti sia in modalità fissa che “wireless”.
La separazione verticale della Rai vrebbe anche altri effetti positivi:
1. Renderebbe gli interessi della Rai diversi da quelli di tutti gli altri “broadcaster” televisivi e consentirebbe all’Amministratore Delegato di perseguire politiche “asimmetriche” rispetto agli interessi del duopolio.
Un esempio? La Società della Rete avrebbe tutto l’interesse a favorire l’uso della banda televisiva per la banda larga mobile, magari rivendicando la riserva di una porzione di spettro per usi pubblici (sicurezza ed emergenza ma anche servizi alla PA) ed offrendosi come “carrier” per questi usi. Adesso invece la RAI partecipa al coro generale per un utilizzo tutto televisivo del dividendo digitale. Nel solo interesse delle emittenti locali e delle altre nazionali.
2. Cambierebbe definitivamente l’”abito mentale” analogico della Rai.
La RAI non considererebbe più la televisione terrestre la “sua rete”. Non misurerebbe il suo successo solo sulla base dell’aumento degli ascolti sulla TV terrestre (come ha fatto quando ha abbandonato la piattaforma Sky). Al contrario, assumerebbe in modo naturale un punto di vista “multi-piattaforma”. Il suo obiettivo come fornitore di contenuti (con o senza la pubblicità) e come operatore di rete, sarebbe quello di raggiungere gli utenti ovunque e comunque: sulla TV e sulla radio digitale ma anche sul Web e sul satellite senza trascurare quelli che saranno i nuovi strumenti di diffusione dei contenuti (smartphone e i-Pad).
3. Creerebbe le condizioni per partnership tecnologiche “neutre” che potrebbero portare nuovi capitali per l’ammodernamento e l’adeguamento degli impianti al nuovo scenario digitale (come nel caso della cessione del 48% di Rai-Way stoppata da Gasparri).
Qualcuno potrebbe obiettare: ma così la Rai perderebbe la possibilità di “difendere” la sua piattaforma (il terrestre) contro le altre ed i suoi contenuti contro quelli degli altri “broadcaster” o dei produttori di contenuti indipendenti.
Si tratta dell’abito mentale che spinge attualmente la Rai (anche coloro che sono critici verso l’attuale gestione e l’attuale struttura della “governance”) ad allineare i propri interessi con quelli di Mediaset. Entrambe (per ora!) hanno l’interesse a difendere la “propria piattaforma” e la propria posizione dominante sugli ascolti.
Ora si da il caso che la convergenza renderà presto molto meno vantaggiosa la competizione tra piattaforme e la difesa di una piattaforma rispetto alle altre. Basta guardare l’attivismo di Google nel mondo delle reti (fisse e mobili) e magari anche le strategie sotterranee di Mediaset verso le NGN per comprendere come la difesa della “piattaforma digitale terrestre” rischi di diventare, per la Rai, la difesa della Fortezza Bastiani. La Rai sarà chiamata a farlo (da Mediaset) fino a che ci sarà un minimo interesse a mungere profitti nel terrestre poi … si potrà spegnere la luce.
Dunque la separazione Rete-Contenuti è comunque utile e produttiva per la Rai.
Ovviamente non penso che si debba impedire per legge l’integrazione verticale (sarebbe davvero sbagliato). Piuttosto credo che si debba assecondare la tendenza dell’evoluzione tecnologia: l’aumento della capacità trasmissiva per MHz, rende sempre meno sostenibile l’integrazione verticale.
La Rai separata in Società di Rete e Società dei Contenuti sarebbe perfettamente strutturata e in grado di competere con Mediaset e con gli altri operatori di rete per la realizzazione della porzione wireless della NGN.
Su queste che sono le convinzioni di una parte del gruppo di lavoro che ha dedicato tempo e intelligenza a questo grande tema e che sono anche le mie convinzioni, ho intenzione di aprire un dibattito e un confronto con tutti i soggetti interessati, in particolare con i sindacati. Da oggi ai primi mesi del 2011 intendo organizzare e chiedere ad alcuni voi la disponibilità per affrontare bene il tema delle frequenze anche con le tv locali, non sottovalutandone l’importanza politica. E rimanderei agli inizi dell’anno prossimo una Forum dedicato esclusivamente a questo aspetto.
La Rai nel quadro dei controlli esterni: il rapporto tra Commissione parlamentare di Vigilanza e Autorità garante nelle comunicazioni
E’ stato questo il tema del terzo gruppo di lavoro. Una prospettiva di riforma che voglia incidere efficacemente sull’esercizio del servizio pubblico radiotelevisivo ai fini di una sua piena funzionalità rispetto al modello di democrazia tracciata dalla nostra costituzione non può trascurare il tema fondamentale del rapporto tra il servizio pubblico e le istituzioni pubbliche esterne investite di poteri di indirizzo e di controllo sullo stesso servizio.
Queste istituzioni, nell’attuale modello italiano, si identificano – così come è noto – nel “quadrilatero” rappresentato dal Parlamento (che esercita le sue funzioni in materia attraverso la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi); dal Governo (e, in particolare, dal Ministero per lo sviluppo economico e dal Ministero dell’Economia); dalla’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; dalla Corte dei Conti.
Cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato nel rapporto tra queste istituzioni ed il servizio pubblico e quali interventi si possono adottare per far funzionare meglio ciò che non ha funzionato?
La Commissione parlamentare e l’Autorità sono nate in tempi tra loro molto distanti, attraverso percorsi diversi e per sopperire ad esigenze diverse. La Commissione parlamentare d’indirizzo e vigilanza è nata con la legge di riforma della RAI n. 103 del 1975. Sotto l’impulso determinante della giurisprudenza della Corte costituzionale che di fatto ha posto le basi per la nascita della Commissione parlamentare nell’attuale configurazione dal momento che, ai fini della compatibilità del monopolio radiotelevisivo con l’art. 21 della costituzione, si è affermato con particolare chiarezza : a) che gli organi direttivi del servizio pubblico non dovevano essere espressione esclusiva o preponderante dell’esecutivo; b) che la programmazione del servizio pubblico doveva rispecchiare la complessità culturale del paese; c) che, di conseguenza, il Parlamento, in quanto espressione dell’intera comunità nazionale, doveva disporre di adeguati poteri. Nasceva così la Commissione parlamentare nell’attuale veste bicamerale. Attraverso la nascita di quest’organo il legislatore mirava a perseguire due obbiettivi fondamentali: spostare l’asse del controllo sul servizio dal Governo al Parlamento; favorire nella programmazione un pluralismo “interno” in grado di rispecchiare le varie componenti sociali, politiche e culturali del paese.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nasceva ventidue anni dopo, nel 1997, in un quadro politico e istituzionale profondamente mutato. Anche per la nascita dell’Agcom la spinta determinante veniva data dalla giurisprudenza. All’Agcom venivano attribuite competenze che investivano l’intero mondo delle comunicazioni e che, per il settore radiotelevisivo, si riferivano non solo al settore dell’emittenza privata, ma anche a quello dell’emittenza pubblica. Alcune delle competenze dell’Agcom, riferite all’emittenza pubblica, risultavano, di conseguenza, sovrapposte alle competenze della Commissione parlamentare. In assenza di un chiaro coordinamento, questa sovrapposizione si manifesta oggi in varie materie quali quelle relative ai messaggi pubblicitari; alla rilevazione degli indici di ascolto e di gradimento; alla tutela dei minori; al rispetto dei doveri della concessionaria nel contenuto della programmazione. dalla Commissione parlamentare al fine di proporre l’apertura di procedimenti disciplinari nei confronti dei dirigenti responsabili. Nella maggior parte dei casi, i confini tra le competenze dei due organi restano incerti, lasciando aperti problemi interpretativi di non facile soluzione.
Un altro tentativo di regolare il rapporto tra Commissione parlamentare ed Autorità di garanzia si trova nella legge sulla par condicio. Con questa legge il legislatore ha seguito la tecnica del doppio binario affidando, con riferimento alla stessa materia, alla Commissione parlamentare la regolazione ed il controllo sull’emittenza pubblica ed all’Agcom la regolazione ed il controllo sull’emittenza privata, con una riserva in ambedue i settori del potere sanzionatorio all’Autorità. Ora questa disciplina non ha mancato di creare seri inconvenienti. Così come è accaduto in occasione delle ultime elezioni regionali quando i regolamenti adottati dai due organi per il settore pubblico e per il settore privato, nonostante il coordinamento effettuato, si sono divaricati su un punto essenziale quale quello del regime giuridico da attribuire, in campagna elettorale, alle trasmissioni di approfondimento informativo. Divergenza aggravata dal fatto che le delibere dell’Agcom risultano sottoposte al controllo della giustizia amministrativa, da cui sono, invece, esenti, in base al principio dell’indipendenza costituzionale degli organi parlamentari, le delibere della Commissione.
Quali ipotesi di riforma consentirebbero di migliorare la situazione attuale superando tali disfunzioni?
L’ipotesi più radicale potrebbe essere quella di attribuire tutte le competenze della Commissione parlamentare all’Agcom, che dispone – sul piano della regolazione, della vigilanza e dell’attività sanzionatoria – di una gamma di poteri più ampi e incisivi di quelli riconosciuti alla Commissione. Questo, peraltro, si presenterebbe come una soluzione quanto meno discutibile sul piano della legalità costituzionale, perché, eliminando o riducendo il peso del Parlamento nel “governo” del mezzo, verrebbe a intaccare uno dei “comandamenti” fondamentali enunciati dalla Corte costituzionale nella sent. n. 225 del 1974 in ordine alle caratteristiche di tale “governo”, con il rischio di un ritorno alla situazione di preminenza dell’esecutivo esistente prima della riforma del 1975.
Se così è, l’unica strada da percorrere resta, quindi, quella di una migliore e più razionale distribuzione delle attuali competenze tra i due organi.
Su questo piano l’ipotesi di fondo potrebbe essere quella di referire alla Commissione parlamentare tutti i poteri di indirizzo generale sulla gestione economica, industriale e commerciale del servizio ed all’Autorità di garanzia tutti i poteri di regolazione, vigilanza e controllo.
Ma poiché la prospettiva della riforma va, in ogni caso, orientata verso un’attenuazione della pressione del sistema politico sul mezzo, anche gli indirizzi generali della Commissione andrebbero ripensati e definiti con maggior precisione di quanto attualmente previsto.
Gli indirizzi generali della Commissione non dovrebbero tanto riferirsi alla programmazione a alla politica culturale quanto alla gestione economica e industriale del servizio, con poteri di intervento vincolanti sul contratto di servizio, sulla misura del canone, sulla distribuzione delle risorse nell’arco di piani pluriennali,sulle azioni di responsabilità verso gli amministratori.
Di contro, all’Agcom andrebbero referiti in via esclusiva tutti i poteri di controllo e vigilanza, nonché i poteri sanzionatori sia verso l’impresa che verso i suoi amministratori (da rafforzare, in qualità e quantità, rispetto alle ipotesi oggi in vigore), nonché tutti i poteri di regolazione attuativi del livello della legislazione primaria, a partire dai poteri di regolazione in tema di campagne elettorali e di comunicazione politica. Su questo piano il permanere di una disciplina differenziata tra emittenza pubblica ed emittenza privata, quale quella prevista dalla legge n. 28 del 2000, non trova più alcun ragionevole fondamento alla luce di quanto espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 155 del 2002.
Ebbene sulla base di queste lucide riflessioni del terzo gruppo di lavoro presieduto e coordinato da Enzo Cheli, che ha tutti i titoli e le competenze e l’esperienza per darci indicazioni corrette, abbiamo messo in cantiere anche un articolato, una proposta di legge. Si tratta di una materia politicamente molto sensibile. Ed è nostra intenzione sottoporre prima di tutto al presidente Zavoli e ai commissari della Vigilanza i primi orientamenti concreti emersi. Siamo davanti – ripeto – a un tema istituzionalmente molto delicato e andremo avanti solo quando verificheremo che c’è autentica condivisione delle proposte che oggi non anticipo proprio per rispetto dell’iter di confronto che intendo mettere in movimento.
Spero con questo mio lungo e argomentato intervento di non avervi troppo annoiato e di avere messo sul tavolo e sottoposto alla vostra attenzione alcuni punti dirimenti per il futuro del servizio pubblico – con l’invito di partecipare ai prossimi incontri in cui meglio chiariremo tutti gli aspetti oggi affrontati.
Non so se ci saranno elezioni anticipate a primavera. E tuttavia noi a primavera dobbiamo essere pronti con una proposta. E dobbiamo attrezzarci a un lavoro di confronto con tutti i nostri potenziali interlocutori se non addirittura alleati. Per ora GRAZIE
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