Non poteva esser peggiore il ritorno sulla scena del premier dopo una brevissima assenza. Aveva posto al centro una forte accelerazione sul terreno della giustizia, preannunciando una riforma già pronta e rispolverando sin la legge-bavaglio, ma nel giro di poche ore ha dovuto registrare una durissima battuta d´arresto. L´ineccepibile intervento del Presidente della Repubblica ha posto in nuova evidenza alcune implicazioni di fondo e al tempo stesso l´arrogante imperizia anticostituzionale del Lodo Alfano.
Dal canto suo Gianfranco Fini ha poi ribadito quella posizione di fermezza che per un attimo era sembrata meno limpida e intransigente (e l´incertezza aveva provocato diffuse proteste nella sua stessa area).
Una nuova sconfitta per il premier, dunque, che lo frena su un terreno decisivo e che frustra sul nascere il tentativo di stringer le file della maggioranza con una nuova forzatura: tentativo non rimandabile, perché nei giorni precedenti essa era sembrata quasi dissolversi in mille rivoli e tensioni. Non più calamitati dal protagonista del dramma, i riflettori avevano illuminato meglio un confuso agitarsi di spezzoni e gruppi, facendo risaltare per contrasto – annotazione poco confortante – la prepotente solidità del polo leghista e l´accresciuto decisionismo di Giulio Tremonti (l´unico che può prefigurare un “dopo Berlusconi”: di qui i primi cenni di insofferenza del premier nei suoi confronti). I sussulti più recenti – con il vacillare dei tre coordinatori e il disorientato vagare degli ex colonnelli di An – si sono solo aggiunti a deterioramenti e derive precedenti. Si pensi alla assoluta mancanza di pudore che ha segnato la vicenda dell´inquisito – e poi condannato – “ministro per un giorno” Aldo Brancher, o alla protezione parlamentare garantita ad un indagato per camorra come l´ex sottosegretario Nicola Cosentino. O anche – per altri versi – alla scelta di Paolo Romani, “vicino” a Mediaset, per la sostituzione di Claudio Scajola. Appaiono semmai corpi estranei alla maggioranza i pochi esponenti che non fanno organicamente parte del sistema, per dirla con Denis Verdini: lo ha confermato la denuncia dell´onorevole Pisanu sulle ultime liste elettorali – «gremite di persone che non sono degne di rappresentare nessuno» – e ancor di più il gelo che l´ha accolta.
In altre parole, l´appannarsi della leadership di Berlusconi ha fatto emergere sempre di più i contorni del ceto politico che in essa ha cercato legittimazione e potere. E quella leadership ha la sua residua forza nella fragilità delle alternative, interne o esterne al centrodestra, più che nel consenso reale del Paese: ce lo ricordano i dati stessi del suo ultimo successo, alle regionali di qualche mese fa. Con un “non voto” giunto al 40% del corpo elettorale – sommando astensioni, schede bianche e nulle – ha scelto il Popolo della Libertà il 16% degli italiani con diritto di voto: uno su sei. Grazie alla legge attuale, e all´alleanza con la Lega, questa percentuale può però garantire la maggioranza in Parlamento. Può permettere a Berlusconi di continuare un percorso che ha come scopo e approdo l´accentramento del potere e uno stravolgimento profondo degli equilibri e degli assetti istituzionali. Oggi quel percorso è molto più accidentato di prima e il tempo non gioca a favore del premier: di qui il carattere sempre più esasperato che le sue scelte sono destinate ad avere.
Conviene dunque interrogarsi meglio sul sostanziale incrinarsi dell´egemonia berlusconiana. Non sembra dovuto, per la verità, ad una più ampia e prorompente indignazione sul terreno dell´etica privata e pubblica: difficile attenderselo, del resto, in una società che in questi anni ha visto diffondersi semmai l´indifferenza, se non l´estraneità, alla legalità e alle regole del vivere collettivo. Il declinare della credibilità del premier sembra connesso piuttosto al crescere di insicurezze e di delusioni, e al progressivo franare del terreno che ne aveva costituito la base di partenza: la capacità di sostituire la “rappresentanza ” con la “rappresentazione”. Di proporre una narrazione rassicurante, anche se evanescente e fittizia. Nei primi anni novanta, inoltre, la personalizzazione stessa della sua proposta politica sembrava rispondere in qualche modo ad umori reali, provocati dal crollo della “prima repubblica”. Trovava alimento nelle reazioni a una “partitocrazia” sempre meno tollerabile. Oggi quella personalizzazione mette a nudo più che in passato le sue ragioni private e la sua incompatibilità con un orizzonte di regole. Più ancora: la rottura stessa delle regole – che inizialmente parve una risorsa ad ampi settori sociali, attivati dalla promessa di un “nuovo miracolo” – amplifica oggi solo incertezze, inquietudini e paure.
Questa è l´ultimo, avvelenato frutto del quindicennio che abbiamo vissuto: un Paese che ha visto aumentare distorsioni sociali, culturali ed etiche per impulso dei modelli e dei miti alimentati dal premier è ora scosso non superficialmente dalla loro crisi. E, in assenza di alternative, il tramontare dei miti dà rinnovato impulso al ripiegamento individuale e agli egoismi di ceto.
In assenza di alternative: questo è il nodo sotteso all´intero scorrere dei problemi, e mai il centrosinistra è parso così inadeguato come negli ultimi mesi. Incapace di rivolgersi ai suoi stessi elettori, ha mostrato un personale politico lacerato da conflitti morti da tempo, appassito nelle sue sconfitte e restio perfino a riflettere su di esse. Sordo nei confronti della società. Incapace di misurarsi con le colossali trasformazioni del mondo del lavoro (una carenza che lo segna ormai da tempo) o di offrire proposte di lungo periodo sui terreni decisivi dell´istruzione e della formazione. Il suo sguardo sembra essersi sempre più ristretto a quel che si muove fra le macerie del sistema politico; sembra lasciar fuori dal suo spettro visivo quella parte degli italiani che – per buone o cattive ragioni – da quelle macerie si è ritratta. Una parte amplissima, che va anche oltre quel quaranta per cento che qualche mese fa non ha votato o ha annullato la scheda. La deriva non può essere arrestata o frenata se non si parla anche a questa parte del Paese. E se non si fa comprendere realmente e concretamente al Paese nel suo insieme che il bene pubblico può essere perseguito in un modo molto diverso da quello con cui si è governato in questi anni. Diverso, anche, da quello con cui si è fatta opposizione.
La Repubblica 25.10.10