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"Se il laboratorio diventa un ministero", di Rino Falcone

Un vero salto di qualità, di questo si tratta. In queste settimane si sta approntando un grave cambiamento strutturale degli enti pubblici di ricerca. Avevamo scritto come l’applicazione della legge delega per l’autonomia statutaria si fosse tradotta in un’irridente messa in scena. Come fosse stata negata ogni possibilità di reale auto-governo (previsto dalla Costituzione per le istituzioni di alta cultura e ricerca). Lo stesso presidente Napolitano aveva sollecitato il ministro su questo punto (con lettera dello scorso agosto).
Non era ovvio perché il ministro Gelmini si fosse impegnata nell’applicazione della delega voluta dal Governo Prodi. Oggi è più chiaro. Da una parte le coercitive restrizioni sull’autonomia introdotte dal suo decreto delegato e il controllo stringente sui CdA attraverso gli esperti (aggiunti per definire gli “statuti autonomi”), hanno spento ogni capacità propulsiva dell’autonomia. Dall’altra, i rilievi agli statuti rispediti indietro dal Miur agli Enti hanno indicato il vero obiettivo del ministro.
Il passaggio è storico: nei futuri enti di ricerca ci sarà un ruolo determinante (predominante, nel caso Cnr) dei direttori generali rispetto ai presidenti: in una catena politica-burocrazia degna della peggiore esperienza Rai. È un rafforzamento dirigistico e centralizzato del controllo sulla rete di ricerca: la vera anima portante della ricerca pubblica. Una sorta di rivoluzione al contrario, un assorbimento del modello burocratico amministrativo che vige nei ministeri, trasferito nella ricerca. E mentre per la scelta dei presidenti si seguirà il percorso dei comitati d’esperti (metodo riconosciuto a livello internazionale e indicato dalla delega del vecchio Governo); il nuovo direttore generale del Cnr sarà designato dal ministro (e non dal CdA). Un dualismo che ha già definito in nuce vincitore e sconfitto. Sconfitta ne esce soprattutto la ricerca, che si aspetterebbe dalla politica strumenti e risorse per accelerare e migliorare il proprio ruolo di contributore allo sviluppo tecnologico e all’evoluzione civile e sociale del Paese. Ci troviamo invece di fronte ad una svolta paradigmatica che affida al metodo burocratico le sorti della ricerca pubblica. In un’Italia che mostra grande interesse per i soli fatti di cronaca cruenti, bisognerebbe richiamare l’attenzione dei cittadini gridando “all’assassinio del loro futuro”, o alla “gambizzazione del progresso”. Ma sarebbe solo l’ennesima sollecitudine alla “pancia” della gente piuttosto che alla loro capacità di ragionamento e discernimento. Forse il vero problema di questo Paese non sta nei “cervelli in fuga” (i nostri scienziati che vanno all’estero), quanto nella “fuga dai cervelli” di chi rimane e collabora alla distruzione delle principali istituzioni.

da www.unita.it