Come ha detto l’economista Paul Romer, è un vero peccato sprecare una crisi. Le crisi possono infatti essere ottime occasioni per ripensare vecchi modelli di sviluppo e investire in futuro, preparando il terreno per la creazione di nuove attività imprenditoriali, nuovi settori, nuove tecnologie.
E questo non lo si fa, come hanno fatto alcuni Paesi, immettendo miliardi di euro o dollari per salvare grandi gruppi, o per stimolare la costruzione di opere pubbliche e case (che andranno ad ingrossare la mole di appartamenti vuoti che già invadono città e periferie), o per incentivare l’acquisto di cucine e lavastoviglie. Misure di questo genere possono solo servire a evitare il tracollo del vecchio (e sulla loro efficacia esistono comunque molti dubbi), ma non certo a creare le basi per qualcosa di nuovo.
Il nuovo lo si costruisce pensando a ciò che deve crescere, formarsi, a ciò che sarà. Il nuovo lo costruiranno in larga parte le nuove generazioni, per questo oggi più che mai sarebbero necessarie politiche rivolte a loro. Nuovi modelli educativi, che insegnino davvero cosa significa essere oggi cittadini nel mondo, figli di una società aperta, informatizzata, dove il problema non è accumulare o memorizzare informazioni, ma essere capaci di analizzarle e ricombinarle in maniera critica. Nuovi modelli di formazione professionale che non inchiodino i ragazzi ad un mestiere che in passato durava 30 anni e oggi al massimo ne dura tre, ma che insegnino loro a gestire e sviluppare le proprie capacità in modo intelligente e flessibile.
Nuovi sistemi di lavoro e di welfare che non tutelino solo i padri, ma che aiutino i giovani ad affrontare la flessibilità senza che diventi una trappola, così come sistemi fiscali e finanziari che diano loro fiducia, pensando non a quanto possono essere spremuti oggi, ma a quanto potranno contribuire domani se aiutati a crescere. E sistemi amministrativi e burocratici internazionali che rendano facile la mobilità fisica, perché è ridicolo lamentarsi oggi della mobilità dei giovani talenti: sarebbero talenti miserabili se restassero ad ammuffire sempre nello stesso posto.
Il vero problema del «talento» oggi non è che è troppo mobile, ma che ancora non lo è abbastanza. Considerato quanto è stato investito, a livello internazionale, in infrastrutture, autostrade, aeroporti e in armonizzazione dei sistemi per far circolare le merci, è impressionante quanto poco sia stato fatto per facilitare la mobilità delle persone e dei lavoratori da un Paese all’altro, in modo da supportare una efficace e tempestiva «allocazione» del talento dove meglio può crescere e contribuire allo sviluppo senza essere sprecato.
Ecco, la crisi poteva essere un’opportunità per rivedere tanti nostri vecchi modelli e tararli sul futuro. Per il momento invece la crisi è stata utilizzata semplicemente per giustificare tagli profondi (una misura che, per via del deficit, sarebbe stata necessaria a prescindere) se non addirittura per bloccare alcuni processi di riforma. Basta pensare a come la scorsa finanziaria abbia determinato, di fatto, il congelamento di parti rilevanti della riforma della pubblica amministrazione, o al recente blocco della riforma dell’università, o al continuo annuncio e rinvio della riforma dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali e così via.
E anziché mettere mano a una vera e importante riforma della formazione professionale che andasse nella direzione degli altri Paesi europei, dove si cerca di rafforzare il legame tra scuola e impresa, è stato abbassato l’obbligo scolastico e demandata ogni formazione alle imprese (che oggi, vale la pena ricordarlo, sono tra quelle in Europa che investono meno in formazione, persino quando si tratta dei ragazzi: solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualche tipo di formazione).
Di fronte a questo scenario complessivo così desolante, anche le iniziative del nostro ministero per le Politiche Giovanili, dal Festival dei Giovani Talenti all’idea dei villaggi della gioventù, pur interessanti, sembrano assolutamente inadeguate e irrilevanti in una fase delicata come questa: quali talenti premieremo tra qualche anno se non ci preoccupiamo di formarli e dare loro un’opportunità di crescita, di lavoro, di realizzazione?
La Stampa 24.10.10