Mentre tutto il mondo degli studiosi e degli operatori della nostra giustizia penale è d’accordo nel ritenere che il primo problema da affrontare sia quello della «eccessiva durata» dei processi (la quale, come ha sottolineato ancora di recente il presidente Napolitano, «mina la fiducia dei cittadini nel servizio giustizia», compromettendo «anche la capacità competitiva del nostro Paese sul piano economico»), il governo sembra volersi occupare d’altro. Tanto è vero che, invece di intervenire sul punto con adeguate strategie legislative e organizzative, preannuncia una «grande riforma» della giustizia, tutta incentrata sulla modifica di alcuni importanti principi dettati in materia dalla Carta costituzionale.
A dimostrazione della mancanza di una linea coerente di politica legislativa si è così passati, nel giro di pochi giorni, dalle discussioni e dalle polemiche sul disegno di legge concernente il «processo breve» (un testo profondamente sbagliato nel metodo e nel merito, ma almeno consapevole della esistenza del problema) al ripescaggio di una serie di vecchie proposte di revisione costituzionale, che davvero nulla hanno a che fare con l’esigenza di accelerare i ritmi processuali. Naturalmente bisognerà attendere i testi per dire qualcosa di più preciso in proposito, tuttavia è chiaro che nessuna di tali proposte, già di per sé molto discutibili nei loro contenuti, appare idonea a recare vantaggi sotto il profilo della minor durata dei processi.
Non la proposta relativa alla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati del pubblico ministero (per sua natura priva di riflessi sulla contrazione dei tempi processuali), e così nemmeno il correlato progetto di modifica degli assetti del Consiglio superiore della magistratura, che potrebbe anche elevare il tasso di «politicità» dei suoi membri. Non la proposta volta ad affievolire il principio di obbligatorietà dell’azione penale (attribuendo alla legge ordinaria la fissazione di criteri di priorità, che potrebbero essere anche pericolosi per il rispetto del principio di eguaglianza davanti alla legge), e così nemmeno la prospettata attenuazione del rapporto di diretta dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla autorità giudiziaria (con il rischio di difetti di coordinamento, se non addirittura di «inchieste parallele», tra le indagini degli organi di polizia e quelle del pubblico ministero). Allo stesso modo nessun vantaggio, ai fini della abbreviazione della durata dei processi, potrebbe venire da un irrigidimento della disciplina della responsabilità civile dei magistrati (i quali, anzi, potrebbero essere indotti a rallentare cautelativamente le loro attività processuali), mentre non si vede dove potrebbe condurre la fantasiosa previsione di una maggioranza qualificata dei due terzi per le sentenze di illegittimità delle leggi da parte della Corte costituzionale: proposta stravagante, che certo non gioverebbe all’efficienza della Corte.
In realtà, per raggiungere l’obiettivo di una «ragionevole durata» dei processi (che vuol dire, per l’imputato, diritto a essere giudicato «senza ingiustificato ritardo»), occorre prima percorrere ben altri itinerari di riforma, che sono quelli ormai più volte indicati anche su queste colonne. Dalle riforme di natura organizzativa e strutturale degli uffici giudiziari (a cominciare dalla revisione della geografia delle sedi) fino alle riforme incidenti sul funzionamento del processo (nel senso di snellirne i meccanismi, ridurne i formalismi, incrementare i filtri selettivi delle iniziative «inutili»), come è stato ribadito anche nel recente convegno di Bergamo della Associazione tra gli studiosi del processo penale. Si tratta di interventi a costo zero, che tuttavia vengono inspiegabilmente trascurati, mentre si ventilano idee minacciose del tutto eccentriche (si pensi alla improponibile proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’operato della magistratura), le quali creano confusione ed equivoci, distogliendo l’attenzione dai veri problemi. E, al riguardo, sarebbe bene, in ogni caso, che il presidente Berlusconi, quando parla di cose della giustizia — a evitare ulteriori conflitti di interesse — ne parlasse sempre in veste di presidente del Consiglio, non già in veste di imputato.
Il Corriere della Sera 19.10.10