La globalizzazione ha abbattuto in tutto il mondo il tabù della libera circolazione dei capitali. Figurarsi perciò se l’Italia può impedire ai suoi cittadini di comprare ville ai Caraibi. Chi la governa ha però il dovere di verificare che gli investimenti siano fatti nel rispetto delle regole.
Quasi sempre, tuttavia, è impossibile. Anche se quei Paesi hanno sottoscritto protocolli e accordi internazionali, poi concretamente non li applicano. Così, al riparo dei segreti bancari e delle società anonime continuano a essere un comodo rifugio per chi non paga le tasse o peggio. Si chiamano infatti paradisi fiscali. E giustamente il governo italiano li combatte con determinazione, al fianco di tutti gli altri Stati occidentali. Consapevole che si tratta di una battaglia planetaria per la civiltà.
In un Paese con il record di evasione e dove la propensione all’esportazione illegale di denari non si è purtroppo fermata negli ultimi anni, come dimostra il «successo» dell’ultimo scudo fiscale, questo è un nervo scoperto. Sul quale il servizio di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli andata in onda domenica sera, e prima ancora l’inchiesta di Luigi Ferrarella pubblicata su questo giornale, hanno avuto il merito di accendere un faro. Da qualche tempo ad Antigua, isola inserita dall’Ocse nella «lista grigia» dei paradisi fiscali, alcuni italiani stanno facendo grandi affari immobiliari. E li stanno facendo attraverso una società, la Flat point, con filiale a Torino ma sede legale in quel piccolo Stato, per la quale a quanto pare è impossibile risalire alla reale proprietà, nonostante fra chi la gestisce ci siano soggetti chiaramente di nazionalità italiana.
Intendiamoci, il problema dei paradisi fiscali va ben oltre i confini angusti di un’isoletta caraibica. Per dire quanto sia complicato affrontarlo e risolverlo, esistono piccole sacche «paradisiache» anche a due passi da casa nostra e perfino all’interno delle nazioni più impegnate in questa battaglia: molte società di comodo di Calisto Tanzi avevano sede nello Stato americano del Delaware, dove il codice è particolarmente «flessibile». Dunque è chiaro che la battaglia richiede innanzitutto grande impegno da parte delle classi politiche. E qui una riflessione è d’obbligo.
Fra i cittadini italiani che hanno investito nell’isola dei Caraibi c’è pure il nostro presidente del Consiglio: si parla di una somma superiore a 20 milioni di euro. Con i governanti di quel Paese, peraltro, Silvio Berlusconi aveva anche intrattenuto rapporti politici, se è vero che cinque anni fa si sarebbe speso per far ottenere in sede internazionale ad Antigua e Barbuda uno sconto del debito estero. Il suo avvocato Niccolò Ghedini ha ricordato che i terreni comprati dal premier ai Caraibi sono stati pagati con regolare bonifico e figurano nella dichiarazione dei redditi. Aggiungendo che «l’immobile è intestato regolarmente a Berlusconi e non già a fantomatiche società off shore.
E con regolari fatture assistite da stati di avanzamento lavori sono stati pagati i lavori di costruzione e arredo». Fatture presumibilmente emesse dalla stessa Flat point… Elemento che ha indotto Milena Gabanelli a sollevare la questione dell’«opacità» tanto contestata da Ghedini.
Ma qui non è in discussione la regolarità delle fatture. Perché si dà il caso che il Paese dove Berlusconi ha investito tutti quei soldi sia uno di quelli paragonati un giorno dal suo ministro dell’Economia alla «Caverna di Alì Babà», dove i Quaranta ladroni nascondevano il bottino. E alla luce del gravoso impegno internazionale che Tremonti ha assunto nella lotta ai paradisi fiscali, quell’investimento si può considerare opportuno?
Il Corriere della Sera 19.10.10