L’universo mafioso – si sa – pensa solo al maschile. Non c’è spazio per le donne, se non nelle vesti di vittime o protagoniste di immani tragedie e comunque personaggi dal destino segnato. Nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di capo e quando qualcuna si è imposta fino a sfiorare il vertice, ciò è avvenuto per necessità di sostituire un uomo momentaneamente assente. Ma anche le supplenze sono episodi sporadici. Più frequenti, invece, le storie tragiche, la violenza cieca esercitata su «deboli e indifese» che la stessa legge mafiosa vorrebbe ipocritamente destinate ad una «tutela assoluta».
Non si può dire che sia stato osservato il comandamento di rispettare le donne nel caso della vendetta trasversale riservata al pentito siciliano Francesco Marino Mannoia. Aveva da poco accettato di collaborare col giudice Giovanni Falcone quando, era l’ottobre del 1989, Cosa nostra uccise Leonarda, la madre, Vincenza, la sorella, e Lucia, la zia del neo collaboratore. Si salvò a stento Rita, la compagna che adesso vive con lui fuori dall’Italia. Era la prima volta che la mafia contravveniva alle proprie leggi, ma la posta in gioco era troppo alta per non tentare qualsiasi azzardo. Si trattava di bloccare sul nascere il fenomeno del pentitismo che già aveva mostrato tutta la sua pericolosità con le collaborazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
Già, Buscetta. Anche questa storia è popolata di donne: tutte in qualche modo vittime del fascino del «mafioso buono». Era vittima Melchiorra Cavallaro, la madre dei suoi figli, relegata al ruolo di comparsa silenziosa. Ed anche la soubrette Vera Girotti, sua compagna nell’attraversamento della «bella vita», lusso e champagne, ma delusa dalla chiusura che il boss opponeva alla richiesta di una «vita più normale». Privilegio, questo, poi concesso da don Masino alla compagna della maturità: Cristina de Almeyda Guimares, donna colta e intelligente che, non a caso, non ha mai voluto prender posto dentro il baraccone mediatico che ha accompagnato l’ultino scorcio della vita del grande pentito.
Chissà, forse la stessa ansia di normalità avrà convinto Lena Garofalo a fidarsi del padre di sua figlia. Forse Lena inseguiva una sistemazione per il futuro di Denise, già stanca di fuggire – insieme con la madre – ai maschi di una famiglia che avevano già deciso di eliminare una testimone, Lena, della loro mafiosità. Imprudente, povera donna: mentre si illudeva che il padre di sua figlia si fosse rassegnato al «perdono», per lei colpevole di aver collaborato coi giudici, quello aveva già messo da parte l’acido per squagliarla. È incredibile come tante donne si rifiutino di vedere ciò che accade attorno a loro. Prendiamo Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Ha sempre difeso il suo uomo, sin da quando, giovanissima, andò al Tribunale di Palermo per «spiegare» ai giudici che Totò era il migliore degli uomini. Poi si è lasciata trascinare nella clandestinità: trent’anni di anonimato riuscendo a partorire quattro figli. Dalla sua bocca non è uscita mai una sola parola di rimpianto, neppure davanti al figlio Giovanni, giovanissimo e già condannato definitivamente all’ergastolo. Ma lei è la moglie del Padrino e, perciò, recita un ruolo importante. Quello di custode dei «valori» di Cosa nostra «correttamente» trasmessi ai figli. Non v’è raffronto possibile con storie più marginali, come quella di Lea Garofalo. Ma anche dentro la «mafia nobile» ha albergato e incombe la tragedia. Che dire della drammatica fine di Vincenzina Marchese, moglie innamoratissima di Leoluca Bagarella? Lui è fratello di Ninetta, la moglie del Padrino. Lei, morta suicida, era figlia e sorella di grandi mafiosi palermitani. Amava tantissimo il suo Luca, fino a sopportare anche lei la clandestinità. Ma aveva un cruccio: l’assenza di figli che lei viveva come un castigo di Dio. Una nemesi divina per la crudeltà con cui Bagarella aveva fatto uccidere e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, ‘u picciriddu sequestrato per ricattare il padre pentito e indurlo a ritrattare ogni rivelazione. Bagarella trovò la moglie impiccata in cucina. E come in un racconto dell’orrore l’ha seppellita in un posto che lui solo conosce. Perchè il suo dolore sia soltanto il suo, senza dover condividere la «vergogna» di una moglie suicida.
La Stampa 19.10.10