La libertà d’informazione è un bene fragile, come un’antica porcellana. Va in mille pezzi se la butti giù dal tavolo, e non c’è mastice che ti restituisca poi l’originale. Ecco perché abbiamo bisogno di tenere gli occhi aperti perfino sui dettagli. Specie quando sul dettaglio può inciampare un giornalista d’inchiesta, uno di quelli che vanno in prima linea, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Come Milena Gabanelli, come ahimè ben pochi altri suoi colleghi. È una forma di censura togliere alla Gabanelli la tutela legale della Rai? A prima vista no: nessuno minaccia di spegnere Report, né d’amputarne le parti più urticanti. D’altronde in Italia non c’è più il Minculpop, non c’è una propaganda di Stato come quella che il nazismo aveva affidato a Goebbels. La censura, quella tutt’oggi praticata dai regimi autoritari, è un’altra cosa; e il giornalista che la sfida sa che può rimetterci la vita. La Gabanelli, al massimo, ci rimetterà qualche quattrino. Tuttavia non esiste soltanto questa forma brutale di censura. Ce n’è una più obliqua e più indiretta, ma non meno efficace. Cade sulla propria vittima goccia a goccia, con un insieme d’azioni preordinate che hanno lo scopo di sfiancarla, oltre che d’intimidirla. Pressioni, ostacoli, ritardi burocratici, e ovviamente la leva finanziaria. L’arma perfetta, per i giornalisti non meno che per gli artisti.
Due secoli più tardi, rimane infatti più che mai eloquente il verso del poeta Béranger: «Io non vivo, che per scrivere dei canti; ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere».
Del resto nelle democrazie contemporanee l’ostracismo apertamente dichiarato può risolversi in un cattivo affare per i suoi mandanti. Finiscono per rimediarci una figura truce, mentre il censurato di turno si trasforma in martire, in eroe popolare. Guadagna tifosi, e magari trova un contratto più ricco altrove. Non è forse già successo dopo l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi? Correva il 2002, e da Sofia il presidente del Consiglio pronunziò un diktat contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Vennero immediatamente cancellati dai palinsesti Rai, ma dopo qualche anno (e qualche sentenza giudiziaria) i primi due ci hanno fatto ritorno passando sotto l’Arco di trionfo. Sarà per questo che nel frattempo i metodi si sono raffinati, sono diventati un po’ meno plateali. Come dimostra, per l’appunto, un rosario di episodi.
La Gabanelli, cui comunque già l’anno scorso il direttore generale Masi voleva togliere il patrocinio legale della Rai, senza riuscirci per l’opposizione di Zavoli, presidente della Vigilanza. Michele Santoro: programma a lungo in bilico, poi apre ma senza i contratti di Travaglio e Vauro, che da tre puntate lavorano a titolo gratuito; e per sovrapprezzo un provvedimento disciplinare. Serena Dandini: anche lei tenuta sulla corda, tanto che fino all’ultimo l’interessata non sapeva quante puntate le toccassero. Saviano e Fazio: altro programma ballerino, benché a novembre (salvo nuove giravolte) lo vedremo in onda. Senza dire di Paolo Ruffini, il direttore di Raitre cacciato e successivamente reintegrato per mano giudiziaria. È insomma il metodo della goccia cinese, che alla fine ti lascia un buco in fronte. Ma le torture, almeno quelle, sarebbero vietate.
La Stampa 19.10.10