Il rappresentante italiano nella Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi, parlando giovedì scorso ad un convegno dell´Aspen è stato lapidario nel formulare la ricetta per uscire dalla stretta della crisi economica che turba con rinnovato vigore i mercati internazionali. Ha detto: «Il voto premia chi coniuga rigore e crescita». Monsieur de La Palisse non avrebbe potuto dir meglio. Anche il nostro ministro dell´Economia ha stilato la stessa ricetta rinviandone l´esecuzione al decreto “Milleproroghe” che sarà varato alla fine di dicembre. In quella sede – ha promesso per placare il crescente malumore dei suoi colleghi di governo – troverà i soldi che oggi non ci sono, avviando la fase 2 della politica economica.
La fase dello sviluppo affiancato appunto a quella del rigore. Ma ha anche avvertito che lo “sviluppismo” potrà aver luogo soltanto se l´Europa adotterà quella stessa linea e se gli Usa non aggraveranno ulteriormente la caduta del dollaro sul mercato dei cambi. Giuste riserve. Ma poiché sappiamo già che l´Europa non ha alcuna intenzione di percorrere la strada dello sviluppo per la semplice ragione che la Germania non ne ha alcuna intenzione anzi ha annunciato una politica addirittura opposta; e poiché la Fed americana dal canto suo ha come obiettivo dominante quello di portare il cambio del dollaro a 1,5 in termini di euro; tutto ciò significa che Tremonti non potrà mantenere gli impegni presi nel Consiglio dei ministri di tre giorni fa. Non ha soldi oggi e ne avrà ancora di meno a dicembre.
Alla fine dell´anno infatti, secondo i calcoli della Tesoreria, bisognerà far fronte a 5 miliardi di spese obbligatorie derivanti dal rifinanziamento della cassa integrazione, dalle missioni militari all´estero e da altre spese già impegnate. La sola riserva di cui dispone è la vendita delle frequenze digitali di proprietà dello Stato che varranno sì e no 3 miliardi. Si ritroverà dunque con un buco di 2 miliardi, un´Europa ancorata al rigore della Bundesbank e un dollaro in caduta libera. Le sue promesse dell´altro ieri hanno dunque credibilità zero, salvo forse qualche spicciolo destinato al federalismo che come pompa aspirante di risorse si rivelerà un pozzo senza fondo.
Il 2011 segnerà il culmine della crisi finanziaria e occupazionale: la Banca d´Italia del resto ha compiuto ieri un passo del tutto inusuale; il ministro dell´Economia aveva bollato con l´aggettivo “ansiogeni” i dati della disoccupazione forniti da Via Nazionale, ma la risposta è arrivata subito ed è stato il direttore generale della Banca, Saccomanni, a recapitarlo al mittente rivendicando l´assoluta esattezza del livello di disoccupazione che non è dell´8,5 come sostenuto dal Tesoro ma dell´11 per cento.
Questo è dunque lo stato dei fatti per quanto riguarda il nostro paese; ma per capir meglio quanto sta accadendo e quanto presumibilmente accadrà nei prossimi mesi bisogna allargare l´analisi al quadro internazionale.
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Sembrava un fenomeno marginale la caduta del dollaro e lo sarebbe se non fosse il segnale di un generale disordine economico internazionale e di una crisi che minaccia al tempo stesso il livello dell´occupazione, la recessione della domanda e della produzione, il pericolo incombente d´una deflazione, una nuova crisi del mercato immobiliare americano, la fragilità dei debiti sovrani di molti paesi a cominciare da quello Usa. Infine la determinazione americana di svalutare il dollaro, le resistenze della Cina ad accettare una rivalutazione della propria moneta che penalizzerebbe le esportazioni e lo sviluppo della sua economia.
Ci sono alcune vittime di questo disordine: il Brasile, il Sudafrica, l´Africa povera e soprattutto l´Europa. La scena mondiale che si offre al nostro sguardo è dunque afflitta da problemi inquietanti che fanno prevedere un 2011 di difficoltà che continueranno molto probabilmente fino al 2013 e anche oltre.
La difficoltà numero uno si sta manifestando in America dove la ripresa della produzione dell´occupazione si è bloccata dopo timidi segnali positivi nel 2009. Difficoltà nel sistema bancario che si sperava fossero superate, stasi delle costruzioni, stasi dei consumi e degli investimenti. La perdita di popolarità del presidente Obama e del Partito democratico avrà una probabile sanzione nelle elezioni di medio termine che avranno luogo nelle prossime settimane e che rischiano di trasferire ai repubblicani la maggioranza del congresso. Ciò accrescerà le difficoltà di Obama a governare l´economia. Il debito pubblico Usa è altissimo e così pure il deficit della bilancia commerciale.
In queste condizioni la Fed ha deciso di immettere sul mercato una nuova iniezione di liquidità per rivitalizzare la domanda interna e sostenere le banche. Questa manovra avrà inizio il 3 novembre prossimo – così ha annunciato Bernanke, presidente della Fed – con l´acquisto di titoli di Stato, di obbligazioni e anche di titoli “tossici” che ancora affliggono i bilanci di alcune grandi banche.
Si ignora il quantitativo di questa operazione ma sarà certamente di notevole rilievo se vorrà avere qualche effetto sul mercato. L´acquisto di titoli avverrà con la stampa di nuova moneta e quindi con l´aumento del deficit pubblico. L´obiettivo non è soltanto quello di rivitalizzare la domanda interna ma anche di svalutare il dollaro che potrebbe presto raggiungere e superare la soglia di 1,5 in termini di euro. L´altro obiettivo è di arrivare ad un´inflazione del 2 per cento se non di più. Sembrerebbe, da questa molteplicità di fini, che le autorità monetarie americane puntino sull´inflazione per alleggerire il peso dell´enorme stock di debito pubblico. È una strada classica, una sorta di imposta regressiva che grava soprattutto sui redditi fissi, lavoratori pensionati e risparmiatori che hanno investito in titoli pubblici i loro risparmi. E se la strategia americana è questa, essa provocherà ripercussioni gravi in Europa.
Nel frattempo, per contrastare la discesa del dollaro, molte Banche centrali hanno deciso di comprare dollari e acquistare buoni del Tesoro americani. Sono dunque due le mani che acquistano Treasury Bond con obiettivi contrastanti: la Fed per immettere liquidità sul mercato e far scendere il cambio del dollaro; alcune Banche centrali straniere per impedire che il dollaro scenda. Il risultato è l´aumento di riserve in dollari in mano a Banche centrali a cominciare da quelle di Cina, Giappone e Emirati del Golfo: una sorta di deterrente che condiziona dall´esterno la politica economica americana.
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Di fronte a questo scontro tra giganti che sconquassano i mercati inseguendo disegni che spesso non sono idonei a riportare ordine e sicurezza, una cosa è certa e avvalorata da tutte le inchieste fin qui effettuate: l´esito più drammatico della crisi è la distruzione mondiale di posti di lavoro. La crescita economica è molto fiacca, specie nei paesi dell´Occidente opulento, ma anche quando riprenderà con maggior vigore non creerà nuovi posti di lavoro. Sarà, come si dice nel gergo economico corrente, una crescita “jobless”.
Il recente rapporto dell´Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) è molto chiaro su questo punto. L´occupazione nelle economie avanzate riuscirà a tornare ai livelli pre-crisi non prima del 2015. La differenza tra i livelli del 2007 e quelli attuali in cifre assolute è di 14,3 milioni di posti di lavoro, mentre 8 milioni sono i posti di lavoro perduti nei paesi emergenti. La differenza totale dei posti di lavoro tra il livello del 2007 e quello del 2010 è dunque di oltre 22 milioni.
Il fenomeno si aggrava se si considera la disoccupazione di lungo periodo, dal minimo di un anno a cinque anni e all´uscita definitiva dal mercato del lavoro. Questo fenomeno penalizza in particolare le donne e il precariato giovanile. Nell´Unione europea, secondo il rapporto dell´Ilo, il tasso della disoccupazione di lungo periodo è del 37 per cento rispetto alla disoccupazione totale. La maglia nera spetta purtroppo all´Italia con il 46 per cento.
Questo fenomeno dipende in parte dalla delocalizzazione dell´industria manifatturiera verso paesi che hanno costi del lavoro molto più bassi dei nostri. Pensare di arginare questo fenomeno in un´economia globale è pura illusione. Mi sono sforzato più volte di segnalare questo problema che si può equilibrare non già impedendo le deroghe ai contratti nazionali vigenti ma recuperando una concertazione permanente tra parti sociali e governo che affronti i problemi della politica economica non abbandonandola nelle mani di un solo ministro con tentazioni dittatoriali. Vedo però che queste proposte non fanno strada. E´ più populistico predicare interventi pubblici che impediscano la delocalizzazione, ipotesi peraltro irrealizzabile in un libero mercato. Proseguendo in questo modo avremo la botte vuota e la moglie astemia o se si vuole la beffa e il danno.
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La politica della Bce e della Commissione di Bruxelles è stata finora sostanzialmente passiva di fronte alla crisi. All´inizio alcuni paesi minacciati dalla crisi finanziaria e bancaria intervennero con robusti sostegni di liquidità aggravando i loro deficit di bilancio. La Bce dal canto suo non lesinò liquidità al mercato e al sistema bancario e ridusse i tassi di interesse dopo lunghi indugi, mantenendoli tuttavia di un paio di punti al di sopra dei tassi americani. L´Italia fu risparmiata dalla crisi bancaria perché i nostri istituti di credito sono stati più prudenti negli impieghi in titoli esteri.
L´ora di abbinare rigore e crescita era quella, ma fu sprecata. L´Europa si limitò a galleggiare sul mare tempestoso nella convinzione che le acque tornassero rapidamente calme. Errore grave, di Bruxelles, di Francoforte e anche di Roma.
Adesso di fronte alle minacce d´una nuova crisi e di nuove strategie che richiederebbero da parte europea decisioni dinamiche e appropriate, la Germania e la sua Banca centrale hanno deciso di prendere in mano il timone e attuare una “exit strategy” di rigore ancor più severo: sanzioni automatiche per chi viola il patto di stabilità, diminuzione degli stock di debito pubblico che superino il 60 per cento del Pil (l´Italia è al 118), diminuzione della liquidità, divieto all´acquisto da parte della Bce di titoli di Stato di paesi membri in difficoltà.
Marciamo dunque dritti verso un aumento della disoccupazione e verso un mercato dominato dalla deflazione. Il che significa un aumento del peso reale del debito pubblico e degli oneri che questo comporta.
Il presidente del Consiglio pensa ai suoi problemi personali e aziendali, il ministro dell´Economia non ritiene di tassare i ricchi per alleviare il ceto medio. Perciò andremo a sbattere di brutto nei prossimi mesi. Non vorrei essere anch´io ansiogeno come Draghi, mi limito come Draghi a dire semplicemente la verità.
da www.repubblica.it