Quanto è accaduto allo stadio di Genova è stato un episodio estremo, che non è finito in tragedia per puro caso. Ma ormai il caso governa il rapporto violento tra stadio e politica.
Detto in termini più forti e preoccupanti: la politica non controlla più «lo spazio pubblico» più grande e più carico di passione che oggi esista. I responsabili dello sport e i politici continuano a fingere che la violenza sia una patologia estirpabile con misure di controllo amministrativo (le tessere) e di ordine pubblico. Certamente sono misure utili, anzi necessarie, ma non toccano il cuore del problema.
Si sta infatti modificando sotto i nostri occhi la qualità dello «spazio pubblico» in cui più direttamente si esprimono le emozioni, le identità e le loro simbologie. Legate al calcio come una «forma di vita» o un suo surrogato simbolico. Ecco perché prima di riparlare ancora dei fanatici serbi o dell’ammissione o no delle bandiere «politiche» negli stadi (come annunciato per la Stella di David a Milano) dobbiamo fare una riflessione più di fondo.
Il gioco del calcio, o meglio l’immaginario che lo accompagna con il suo intenso coinvolgimento emotivo e verbale, è probabilmente «lo spazio pubblico» più importante in cui si esprimono oggi milioni di uomini (e in misura minore di donne).
Se per ipotesi assurda dovesse essere eliminato, scomparirebbe l’argomento più frequente e coinvolgente dell’interazione quotidiana. Verrebbe meno persino un pezzo di identità di milioni di persone.
Si dirà che sto esagerando. Certo: di calcio si parla in continuazione nei rapporti quotidiani tra amici, sul lavoro, persino con sconosciuti, diventando un paradossale strumento di conoscenza. Ma – si obietta – si tratta pur sempre di spazi di intrattenimento, di relax, di gioco appunto. Quando si trasforma in qualcosa d’altro – in particolare in veicolo di violenza verbale sotto la forma di intolleranza di parte (pseudo-sportiva) o addirittura strumentalizzazione politica senza alcun nesso con il gioco – allora la passione per il calcio «degenera» letteralmente, diventa «altro dallo sport».
Queste sono osservazioni sagge ed edificanti che sentiamo da decenni ripetute seriosamente in tutti i talk-show – senza alcun risultato. Perché? Per cominciare, sin qui noi stessi abbiamo mantenuto la finzione di parlare di «sport», quando in realtà siamo dinanzi al «tifo», al coinvolgimento passivo in eventi sportivi giocati da professionisti che hanno perso ogni legame con una presunta comunità o comunanza d’origine (che dà senso alla squadra di «casa mia»). La maglia, la bandiera e la simbologia connessa sono il vero oggetto della passione e specularmente dell’odio per l’avversario. Apoteosi del feticcio, sul quale tutto può essere scaricato – in particolare quelle dinamiche identitarie che hanno le loro radici fuori, nella società, nelle attese e nelle frustrazioni da essa prodotte.
Ma che cosa c’entra la politica? Qui sta la differenza tra i ragionevoli spettatori (paganti) che si godono la partita come meritato intermezzo, magari per compensarsi dalle delusioni della politica. E gli energumeni o i ragazzi scatenati delle curve che vivono la partita non come «intermezzo» ma come rappresentazione della vita vissuta (politica compresa). E ci vogliono andare dentro, di brutto, picchiando, insultando. La confusione tra squadre e partiti fa parte del «gioco».
Tornando al brutto episodio di Genova di alcune notti fa, negli ultimi commenti la componente politica sembra ridimensionarsi. L’uomo nero, Bogdanov, da Ivan il terribile è declassato a Ivan il pentito, con l’aiuto di mamma. Quella che sembrava una spedizione politica programmata, per spostare la guerra civile serba in Europa, in polemica contro l’entrata nell’Ue, appare un trasferimento punitivo di «fans» sfuggito agli occhi della polizia. L’unica cosa certa è il dilettantismo delle autorità politiche e di polizia di entrambi i Paesi. Ma i fuochi e le violenze di quella notte rimangono ben impressi nella nostra memoria. Sono stati anch’essi frutto di quel «caso» di cui parlavamo all’inizio?
Stiamo ora bene all’erta per quello che non deve accadere a San Siro dove sventolerà la bandiera con la Stella di Davide accanto ad altri vessilli. È troppo sperare che «lo spazio pubblico» dello stadio sia più forte dei dubbi e delle resistenze della politica?
da www.lastampa.it