Una fulminea battuta di Giulio Tremonti ha messo fine alle speranze dei sostenitori della rapida approvazione della riforma Gelmini dell’università. Pare che il Ministro dell’Economia, di fronte alle lagnanze di Bondi e Gelmini per ottenere fondi abbia risposto, “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia”. Certo, poteva andare peggio, il ministro nazista della propaganda Joseph Goebbels diceva “Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”. Ovviamente Tremonti non ha nulla a che fare con il nazismo, né il berlusconismo può essere in alcun modo paragonato alla feroce dittatura nazista, anche se i rischi di cadere in una “dittatura morbida” non mancano.
Poche ore dopo Tremonti, rintracciato dai cronisti a pranzo, ha naturalmente smentito, nonostante il suo commensale, il Ministro Bossi, facesse pensare ad una conferma implicita.
Ma, battute a parte, resta il fatto che il disprezzo per la cultura e le sue istituzioni pervade tutte le scelte del governo. Quanto sta accadendo sulla riforma universitaria ne fornisce un esempio. Tremonti, negando la copertura economica all’emendamento sull’assunzione come associati di 9 mila ricercatori in 6 anni, non ha solo affossato una riforma sbagliata, contro la quale un ampio fronte sta lottando e sulla quale, invece, la maggioranza si era ricompattata. Ha deciso di lasciare andare alla deriva l’università pubblica, ormai immersa nel caos totale del blocco della didattica, dell’incertezza sulla sorte dei ricercatori che la fanno funzionare ogni giorno (“25 mila sepolti vivi nella Gelminiera”, recita uno slogan), nella certezza del taglio di 1,4 miliardi di euro (il 20% delle risorse totali) destinato a provocare la chiusura molti atenei, a ridimensionare, dequalificare e privatizzare l’intero sistema universitario italiano.
Secondo il gossip politico, Tremonti, negando i fondi, avrebbe dato un ennesimo colpo al premier declinante e alla Gelmini (una delle berlusconiane più strenue), rafforzando così la sua posizione in vista del dopo Berlusconi. Questa interpretazione tattica della decisione di Tremonti è plausibile, ma l’abbandono dell’università pubblica – allo stesso modo della scuola pubblica – risponde soprattutto ad una visione strategica che guida le politiche formative del governo, di cui, come abbiamo fin dall’inizio sostenuto, Tremonti è il vero artefice. Aldo Schiavone, ieri su Repubblica, ne ha fornito un’ottima sintesi: Tremonti “accetta e promuove l’esistenza di due Italie: una destinata a precipitare nella regressione, e l’altra, invece, votata a salvarsi”. Per il cinico e rassegnato ministro dell’economia il declino italiano è ormai irreversibile … si salvi chi può. Inutile trovare le risorse per rilanciare le leve principali dello sviluppo del paese, perché una parte di esso (ceti medio bassi, lavoro dipendente, sud)è destinata a restare ai margini dell’economia globale e a rinunciare a diritti e welfare per competere sui costi con i paesi in via di sviluppo (il caso Pomigliano è un esempio paradigmatico di questa deriva). Per “l’altra Italia – su cui contare e fare leva – che si salva grazie allo stratificarsi dei suoi privilegi antichi e recenti … “, sostenuta dalle rendite finanziarie tassate al 12,5% e dall’evasione fiscale, è possibile una via di uscita nell’economia globalizzata, “senza il bisogno di una grande università nazionale, perché si educa attraverso reti private, o direttamente europee e americane”.
Ancora una volta appare con chiarezza la centralità della partita in gioco su scuola e università, decisiva per lo sviluppo del paese e per la sua stessa unità. Il discrimine sono le risorse in gioco: la vicenda consumatasi in questi giorni sulla riforma universitaria conferma che i tagli varati con la legge 133/08 sono incompatibili con qualsiasi processo di riforma dei sistemi pubblici della conoscenza. Solo sconfiggendo il governo su questo punto è possibile riaprire la strada alle necessarie riforme.
In fondo i tagli di Tremonti hanno l’obiettivo di adeguare l’insufficiente – se confrontata a quella dei paesi sviluppati – offerta di competenze da parte dell’inefficace e inefficiente sistema formativo italiano alla ancor più bassa domanda di un sistema produttivo sempre meno competitivo.
I dati dell’ultima indagine Ocse sono chiari: al termine degli studi universitari, nella fascia di età fino a 29 anni, trova lavoro solo il 47,3%, contro il 77,15 della Germania, il 69% della Finlandia e della Francia. Eppure il numero dei laureati italiani è molto basso: solo il 14% della popolazione italiana è laureata contro il 28% della media Ocse e anche nella fascia di età 25-34 anni gli italiani con laurea sono il 20% contro il 27% della media Ocse. Sono meno anche i diplomati (53% contro 71%). Anche secondo i dati i Excelsior-Unioncamere il mercato del lavoro nazionale prevede di aver bisogno di 12 laureati su 100 nuove assunzioni, mentre quello USA ne prevede 31.
Per favorire il riposizionamento qualitativo del nostro sistema produttivo, il sindacato deve impedire l’abbassamento dell’asticella dei diritti costituzionali e contrattuali dei lavoratori, solo così potrà frenare la spinta delle imprese a competere senza innovare. Al tempo stesso occorre ampliare e potenziare la contrattazione di secondo livello per nuove e più flessibili forme di organizzazione del lavoro che sostengano le imprese che puntano su formazione, ricerca e innovazione.
Occorre poi un progetto-paese capace di mettere al centro e di connettere una politica economica per la crescita con il rilancio dei sistemi della conoscenza pubblici.
Le lotte in corso nelle università in questi giorni si legano alla manifestazione della Cgil e della Fiom in modo evidente: se passa il modello Fiat/Sacconi di smantellamento del contratto nazionale e dei diritti costituzionali del lavoro per poter lavorare, allora quel lavoro e quel modello di crescita potranno anche fare a meno di scuole e università di qualità per tutti.
da ScuolaOggi